Fondato nel 2018 e promosso da Alan Advantage, il Re-Humanism Prize è un premio libero che mira a esplorare e interrogarsi sulla diffusione e sull’utilizzo dei media tecnologici come base dell’arte, nella necessità di andare oltre alle concezioni basilari sulla realtà.
Al primo classificato selezionato dalla giuria composta, tra gli altri, dalla curatrice Daniela Cotimbo, andranno 3mila euro di premio più 4mila di budget produzione; al secondo premiato 2mila euro più 3mila di produzione e al terzo artista classificato 2mila più 3mila di budget produzione.
Gli altri 7 classificati riceveranno un rimborso spese per i costi di partecipazione ma tutti i primi 10 selezionati parteciperanno ad una mostra esclusiva a Roma.
A questi si aggiunge anche l’11mo riconoscimento, il Romaeuropa Digitalive Prize – da destinarsi ad un progetto performativo futuro prodotto e presentato nel programma ufficiale del festival (valore economico: 1,500 euro di produzione più 500 di premio, in Ottobre 2021).
I primi tre premi prevedono inoltre l’acquisizione dell’opera d’arte. Tutti gli artisti finalisti avranno visibilità attraverso i canali di comunicazione ufficiali di Re:Humanism e i loro progetti saranno presentati alla rete di Alan Advantage, sponsor principale dell’iniziativa.
Il tema di quest’anno è “Re:define the boundaries”. A quali confini vi riferite esattamente, e quale credete possa essere il ruolo dell’IA nella ridefinizione degli stessi?
Le tecnologie avanzate come l’IA o la realtà virtuale sono in grado di ridisegnare completamente dei concetti fondamentali come tempo, spazio, corpo e identità. Lo vediamo ancor meglio oggi che siamo confinati nelle nostre abitazioni e gran parte delle nostre esperienze passa attraverso la rete. Nel caso specifico dell’intelligenza artificiale siamo di fronte ad uno scenario complesso in cui tale tecnologia rappresenta un problema in termini di consolidamento di stereotipi di razza e genere e di violazioni della privacy, ma se facciamo riferimento al pensiero di Donna Haraway ad esempio, in particolare al Manifesto Cyborg del 1985, non possiamo non notare che il progresso tecnologico rappresenta anche un’importante occasione per superare un confine, quello tra identità e natura. In questo senso le esplorazioni si moltiplicano. Credo che ogni volta che l’arte si è interrogata sulla diffusione o sull’utilizzo dei media tecnologici alla base ci fosse sempre la stessa necessità, quella di andare oltre alle concezioni basilari sulla realtà.
L’”approccio antropologico all’IA” a cui fate riferimento è un tema accolto negli ambiti di ricerca più avanzati nell’ambito dell’intelligenza artificiale. Le derive in questo senso sono molteplici, tanto che nel dibattito scientifico si sta arrivando ad approfondire anche temi prima d’ora impensabili, come quello dell’Emotional AI. E questo mi riporta ad una riflessione centrale: l’arte rimane, sempre e comunque, una prerogativa antropologica. Riterreste dunque possibile parlare di un approccio all’AI che non sia antropologico?
Se affrontiamo la questione sul piano artistico, non credo abbia molto senso parlare di un approccio non antropologico. Le esplorazioni delle potenzialità generative di un’IA hanno incuriosito molto nelle prime fasi ma penso che dopo una fascinazione iniziale siamo tutti (o quasi) giunti alla conclusione che l’arte nasce da una necessità che è propriamente antropologica. Viceversa gli sviluppi “non antropologici” della tecnologia in sé sono molto affascinanti e ancora una volta ci aiutano ad andare oltre alle nostre concezioni consolidate. Interrogarsi su un’antropologia dell’AI significa anche immaginare su come noi ci relazioneremo ad essa in termini fisiologici e psichici.
Ritenete che oggi gli artisti possano incidere in modo significativo rispetto alle aree tematiche da voi indentificate? Non si può fare a meno di osservare come, nella quotidianità, questi siano esclusi da ogni forma di dibattito in questo senso.
Dipende da dove guardiamo, la figura dell’artista-ricercatore si sta facendo strada, anche se a fatica, negli ambiti istituzionali ed accademici, così come nelle realtà produttive. Siamo ancora lontani da una sistematizzazione in questo senso ma nello specifico momento in cui viviamo, con un’emergenza sanitaria in atto e tanti problemi da affrontare, è necessario riportare la riflessione umana al centro dei processi e delle pratiche condivise. Nel mio piccolo ho imparato che la cosa più importante è trovare un linguaggio comune, che concili l’autonomia dell’arte con le necessità della società, credo che entrambi questi aspetti possano autoalimentarsi, Re:Humanism nasce proprio con questo intento.
So che ci sarà un’attenzione particolare verso le tematiche di genere nell’edizione di quest’anno. Qual è la vostra posizione sul contributo che il binomio Arte-IA può offrire a questa tematica e, a livello teorico, come pensate di affrontarla?
La questione del genere rientra in due aree tematiche del premio, quella legata al corpo e all’identità e quella legata alle politiche e agli abusi. Non direi che emerge rispetto alle altre questioni, ma sicuramente siamo in un momento storico favorevole alla riflessione in tal senso. Lo sviluppo tecnologico per secoli è stato una prerogativa maschile, o meglio i contributi di altre categorie di genere sono stati poco valorizzati e oggi queste tecnologie incarnano gli stereotipi dei propri creatori. Il tema è stato più volte affrontato dagli artist*, pensiamo a Zach Blas, Joy Buolamwini o Trevor Paglen; poi ci sono altri aspetti ugualmente interessanti e che rientrano in un’ottica più speculativa come ridefinire le relazioni sentimentali, il desiderio sessuale, le possibilità del corpo e dell’identità in un mondo in cui le classificazioni operate dalla natura hanno disatteso sogni e bisogni dell’individuo.
Quali obiettivi vi prefissate di raggiungere con il premio e a quale tipo di ricerche vorreste dare maggiore risalto?
Re:Humanism Art Prize vuol mantenere la massima larghezza di vedute (e di approcci) sul tema. Per questo abbiamo ideato ben cinque aree tematiche e non abbiamo posto limiti ai partecipanti. Sebbene si tratti di una competizione, lo scopo è quello di entrare in contatto con più realtà possibili e di potare avanti diversi ambiti di ricerca, anche al di fuori della cornice dell’art prize. Non mi riferisco solo agli artisti ma a tutti coloro che possano dare valore a questa riflessione. L’associazione culturale nasce proprio da questa esigenza, in sostanza, è come se ci fosse una call perenne e ci auguriamo davvero di poter ricevere tanti contributi.
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