L’idea è nata dalla
constatazione di un’emergenza che da tempo trascina l’Italia in un profondo
degrado sociale, politico, morale. E dunque culturale, di fronte a cui gli
intellettuali, cioè quanti operano nel campo della cultura, non possono continuare
a restare inattivi. Strumento tradizionale del dibattito di idee, la rivista
rimane forse ancora oggi il mezzo più pratico e immediato per intervenire
collettivamente in una situazione così compromessa.
L’Italia del 2010, in cui compare alfabeta2,
è molto diversa da quella in cui veniva pubblicata la prima serie della rivista
(1979-1988), ma al tempo stesso – come sottolineava giustamente il primo
editoriale – ne è figlia e diretta conseguenza. Come dovrebbe agire alfabeta2 in questo contesto mutato?
Gli ‘80 sono stati anni di
riflusso dopo l’esplosione del decennio precedente, e la funzione del primo alfabeta è stata quella di arginare
culturalmente la deriva emergenziale con i suoi effetti perversi sulle libertà
civili nel ritorno all’ordine. Oggi l’emergenza richiede invece un intervento
diretto degli intellettuali nelle vicende del Paese, una visione politica che
investa un presente in decomposizione con nuove idee e nuove forme.
in una sezione apposita una gustosa rassegna stampa con le reazioni al primo
numero, che ha effettivamente scatenato polemiche e discussioni piuttosto
accese nel panorama generalmente asfittico della cultura media(tica) italiana.
Che idea ti sei fatto in merito?
È un segno positivo che ci sia
ancora qualche reazione a idee che cercano di scuotere un Paese collassato.
Segno anche che le idee ancora nascono e operano. Ma la cosa fondamentale è che
il dibattito si apra e investa le nuove generazioni, quelle a rischio di
perdere ogni futuro, e che siano loro a condurre in prima persona questa
battaglia.
Il primo numero era dedicato alla figura dell’intellettuale oggi,
mentre il secondo presenta un articolato dossier sulla condizione dei
lavoratori della conoscenza. È chiaro che alfabeta2
dedica grande attenzione allo stato presente della cultura, interpretato come
una chiave di lettura per comprendere la società attuale. Quali sono le strade
che intravedi per restituire centralità a un territorio che è divenuto
piuttosto marginale, soprattutto nel nostro Paese? È possibile secondo te una
ricostruzione del ruolo dell’intellettuale, e secondo quali modalità?
Certamente non si tratta di
restaurare una figura anacronistica, di cui l’avvento della cultura di massa ha
messo in crisi il ruolo elitario. Il lavoro intellettuale oggi si è esteso a
categorie, ampiamente sfruttate, sempre più impiegate nella produzione di beni
materiali, ma che non incidono se non marginalmente sul tessuto sociale. Si
tratta di riannodare i fili del discorso della cultura con quello della
politica, in una situazione in cui quest’ultima è degenerata nella squallida
rappresentazione di interessi privati e di casta.
a cura di christian caliandro
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 69. Te l’eri perso? Abbonati!
Info: www.alfabeta2.it
[exibart]
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La rivista ha contenuti ineccepibili e il fatto che molti articoli siano frutti di veri e propri laboratori fa di Alfabeta2 un caso molto interessante.
Molto azzeccato il fatto che ciascun artista sia protagonista in un numero (scontato Pomodoro, molto interessante Baruchello), mentre l'impaginazione è a mio avviso infelice: font troppo piccoli e mancano gli abstract degli articoli che non permettono di valutarne il contenuto o di ripescare facilmente il pezzo se lo si ha letto mesi prima.
Caro Daniele, non ho ancora letto Alfabeta e non discuterò della rivista, ma di un appunto da te fatto su Arnaldo Pomodoro che potrebbe aprire un dibattito (o provocare qualche commento) sul "sentimento dell'arte nazionale" oggi in Italia. Ti prego di credere che la tua frase ha solo stimolato la riflessione che segue e non è da me obiettata in quanto tale.
Anch'io non riesco a essere una fan dell'artista a cui ho sempre preferito, semmai, il meno noto fratello, ma questo poco importa. Per quanto, certe opere degli anni '60 meriterebbero una vera e sorprendente rilettura, cercando di dimenticare le sferone seminate in aeroporti, piazze, corti dei palazzi ministeriali, ecc. ecc.
Sta di fatto che - forse - noi Italiani non riconosciamo un valore meritato sul campo soprattutto in ambito culturale.
Spero di essere compresa nella generalizzazione.
Arnaldo Pomodoro è artista internazionale di cifra stilistica nettamente distinguibile, di forte impatto iconico, di robusta fama, di vasto mercato (costante anche se non brillantissimo negli ultimi tempi): insomma, un "nome" che non deve dimostrare più qualcosa ma semmai raccogliere solo ulteriori allori, che, si sa, quando si è arrivati, arrivano a propria volta un po' da ovunque senza particolare criterio.
Un "vecchio dell'arte" (che non me ne voglia!) a cui altrove si tributerebbe rispetto, onore e attenzione (Francia, Germania, Spagna, Paesi Nordici, non parliamo degli Stati Uniti!).
Non sappiamo "fare squadra", così come in altri campi. A partire dal "siamo tutti CT della nazionale di calcio" (che ben poco m'interessa) sino al "siamo tutti critici d'arte", l'Italia si è abituata al frazionamento del senso comune e dell'opinione, perdendo l'opportunità di considerare un patrimonio d'arte e intelletti come un unicum da rispettare e saper valutare con obiettività in ogni forma. E sviluppare un banale, forse qualunquista (ma certamente oggi del tutto mancante), sentimento d'orgoglio nazionale per l'arte in genere.
Ma, aldilà del legittimo gusto personale, che però spesso non riesce a considerare null'altro che se stesso, la mia "difesa" di Pomodoro s'incardina intorno ad un diverso ordine di considerazioni.
A Milano, l'Artista gestisce una Fondazione a proprio nome, notevolissima, che "trascina" - è il caso di dirlo - con enorme difficoltà. E, che piacciano o meno i progetti in cartellone (spesso comnque di alto livello), da diversi anni ormai si sostituisce nelle proposte per l'arte contemporanea alla miserabile cricca di assessorati e sovrintendenze locali che deprimono la Città mostrando di essa, fatti salvi rarissimi felici interludi, solo le pochezze, le piccinerie, i "ballottini" di quart'ultima, la cultura d'accattoni - in questo superati solo dal Bondi in persona, ma certo, non è un vanto -.
Ciò vuol dire che un artista "importante", che potrebbe passare gli ultimi decenni a far da tappezzeria di qualche omaggiatissima personale a Montecarlo, ha preferito operare nella Città che lo accolse e lo favorì in passato e sudare per offrire quello che egli (e altri con lui) pensano sia un dovere dell'uomo di cultura.
Ciò che non fece, ad esempio, un Vedova di forse maggior appeal artistico, che preferì restare in Accademia e che costituì, alla fine della propria carriera e - purtroppo - vita, una Fondazione allo scopo di conservare e mostrare le proprie opere, aperta solo a tre anni circa dalla morte. Bellissima Fondazione, certamente. Eppure: quanto avrebbe potuto FARE a Venezia un Vedova per impostare "personalmente" un asse diverso dal polo Guggenheim, Palazzo Grassi, mancando del tutto il contributo dell'Ente Pubblico, assente ingiustificato per l'abbandono di Ca' Pesaro e presente poco giustificato per la Biennale?
Soltanto per questa scelta di campo (e non sarebbe solo per questo), Pomodoro dovrebbe avere medaglie e onori che invece non riceve.
Salvo poi essere tutti "intimi amici" al momento cruciale del passaggio di ogni esistenza.
Io credo che Pomodoro, anche e soprattutto per ciò che fa fuori dal proprio studio, dovrebbe essere riconosciuto, onorato e supportato e costituire un esempio di come l'arte gode nel rigenerare se stessa e non può fare a meno di agire. Non può stare alla finestra e aspettare, lamentando tempi bui, in attesa di quelli migliori che sempre qualcun altro dovrebbe costruire.