L’avventura di “©arnet arte” inizia nel 2003 con un #0 allegato a “©arnet”. Un volume fotografico –il catalogo della mostra che esponeva gli scatti di
Baldelli,
Cauz,
Corazzi e Scatarzi,
Menini,
Pavia –dedicato al “dietro le quinte” della Biennale. Un modo eclatante di calarsi nell’arena. L’editoriale del #1 alzava il tiro: l’arte contemporanea, sosteneva Tassini, suscita un crescente interesse, e l’anello debole sono i periodici, che sono
“rimasti fermi”. Perciò “©arnet arte” intende superare le dinamiche incancrenite, per presentare i fatti, per
“vivere” l’arte contemporanea piuttosto che
“giudicarla”. Con lo sguardo retrospettivo di Bonami:
“©arnet arte è stato un breve tentativo di intrecciare l’arte contemporanea con l’attualità, offrendo l’opportunità ai critici che vi hanno contribuito di sperimentare un linguaggio giornalistico altrimenti praticamente assente sulla stampa italiana. Come tutti gli esperimenti, ha avuto vita breve, ma credo sia servito a sdoganare l’arte contemporanea da una nicchia o, se si vuole, da un ghetto”.
“Sdoganamento” che si avvaleva di una sezione d’apertura,
Sguardi, costituita da brevi interventi a firma di Gioni, Martin e Todoli. E se Obrist deponeva l’arma dell’intervista, a far le domande ci pensava Keller, per
“spiegare le numerose sfaccettature del complesso sistema dell’arte dall’osservatorio delle due esposizioni artistiche più importanti a livello mondiale”. Ancora un senso “divulgativo” avevano le rubriche
Top Five –ossia film, musica/canzone, stilista, luogo e libro preferiti dall’artista di turno– e
Reflex, l’intervista doppia di Cosulich Canarutto.
Il punto più debole in quest’ottica erano alcuni approfondimenti, più legati agli stilemi delle riviste di settore, mentre rientrava nell’obiettivo generale lo “sconfinamento” nel design guidato da Fabio Sironi o l’articolo di
Jan Fabre dedicato a “Janus” (che, in alcune città, era per l’occasione allegato alla rivista). Senza dimenticare i
Reportage, di Casolari dall’isola di Naoshima o di Mascelloni in Asia centrale e Ghana.
Non me ne vogliano gli altri contributor, da Martina Corgnati a Cloe Piccoli: la rubrica più spassosa e (perciò) utile era
Il collezionista di Aldo Busi. Con quella scrittura inconfondibile e spudorata che, senza alcuna remora nei confronti del suo vicino di pagina Riva, giunse a definire
Italian Factory un’
“operazione forzista” che permetteva di ribadire l’
“assoluto, indifferenziato, direi genetico leccaculismo intrinseco a ogni artista”. Ciò che resta sono soprattutto le copertine-ritratto, da
Yan Pei Ming a un’ammiccante
Cecily Brown. Sul #2/5, col quale si chiudeva la parabola di “©arnet”, campeggiava
Jeff Koons fotografato da
Todd Eberle.
Nessun onore delle armi, manco un editoriale, solo un comunicato sindacale. E Busi, constatato che
“l’arte e i suoi artisti e critici e mercanti e relativi assessori all’Economia Domestica sono stucchevolmente intossicanti”, a dichiarare che
“con questo articolo chiudo per un bel po’”. Un bilancio lo abbozza ex post Gioni, che individua la
“qualità principale” della rivista nel non essere espressione di una
“critica militante, ma piuttosto una guida al mondo dell’arte rappresentato in tutta la sua varietà, tra alti e bassi, grandi protagonisti e comprimari”. Aggiungiamo noi: i nobili obiettivi di “©arnet arte” erano condivisibili, e pure molti degli strumenti. Ma non bastano grandi firme e un importante editore. L’alchimia che coniuga progetto editoriale e imprenditoriale è assai delicata, e non è un caso che le esperienze più durature e/o interessanti siano quasi sempre scaturite da realtà di dimensioni ridotte. Lo vedremo direttamente nelle prossime puntate.
articoli correlati L’annuncio della chiusura di ©arnet arte marco enrico giacomelli *articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 39. Te l’eri perso? Abbonati!