È indiscutibile che, con l’arrivo di Cavallucci alla direzione, la Galleria Civica di Trento si sia trasformata da sonnacchiosa sala espositiva per amatori – sia detto con tutto il rispetto – a luogo di sperimentazione di respiro internazionale. Certo non è l’unica realtà del genere nella zona, basti pensare al Museion di Bolzano o alla Gc.Ac. di Monfalcone. Quel che ci interessa in quest’occasione è però Work, lo house organ della galleria. Presentarlo in questo modo non gli rende tuttavia giustizia. Infatti, si tratta di un prodotto a cavallo fra la rivista espressione della galleria, quella classica di settore e il sostituto del catalogo.
Com’è nata l’idea?
Le ragioni sono tante. La prima è che il catalogo che accompagna tradizionalmente la mostra è in gran parte superato. Salvo i casi di mostre personali, in cui diventa uno strumento di studio, la sua utilità sfiora spesso lo zero: i cataloghi si accumulano nelle librerie senza essere aperti, oppure ammuffiscono nei magazzini dei musei.
A dire il vero, spesso anche le riviste subiscono la stessa sorte…
Ma almeno pesano meno! E di per sé sono un prodotto di facile consumo. Inoltre, la rivista consente di ampliare gli argomenti, di vederli sotto differenti profili. La molteplicità dei punti di vista e l’incontro tra ambiti culturali differenti sono oggi aspetti imprescindibili della ricerca, che però non è sempre facile inserire in una mostra. Mentre una rivista consente di approfondire i temi artistici, allargarli – per esempio – alla sociologia, alla semiotica, all’economia, alla letteratura.
In effetti, su Work si possono leggere interventi più o meno atipici, come il dibattito via email fra Valie Export e Joan Jonas o le pagine di Senaldi e Sacco per la mostra Interessi zero!. Anche le interviste spaziano in territori di varia estrazione, con nomi come Paolo Virno e David Riondino. E il formato-rivista dà la possibilità di pubblicare un’intervista in due parti, per evitare l’effetto
Work non si limita però a fungere da catalogo delle collettive. Stiamo assistendo alla nascita di un nuovo format, a una funzione “supplettiva” che deriva dalla latitanza delle riviste patinate? In realtà non ho mai pensato che Work potesse diventare qualcosa di più che lo strumento di divulgazione dell’attività della Galleria Civica di Trento. È vero che vorrei che quest’attività si conformasse sempre più come ricerca, di cui la mostra o l’evento sono solo una parte, e non necessariamente la più importante.
Modestia di rito? Lo fanno pensare parecchi articoli di carattere generale o vivaci scambi di vedute, che ormai si vedono assai di rado su certi periodici. Pensiamo al botta-e-risposta sulla Grande Mela, con un Cavallucci che spunta la decennale riverenza nei confronti di New York capitale dell’arte, e un Andrea Bellini che invece la difende a spada tratta. Le polemiche sono dunque uno degli elementi più stimolanti di Work, ribadito dallo “scontro” fra Arturo Schwarz e e un Cavallucci calato nella parte dell’agent provocateur a posteriori. C’è naturalmente spazio anche per dibattiti più locali, come quello relativo alla nascita del Crac, ma coinvolgendo attori come Sacco e Tazzi, Rirkrit Tiravanija, Hedwig Fijen (Manifesta) e Jens Hoffmann (Ica, Londra). E ancora panoramiche sull’arte nelle presunte “periferie” del mondo, come l’America Latina e l’Oceano Pacifico. Infine, conquista qualche pagina anche la riflessione più teorica, con Renato Barilli sulla Performance Today e il minisaggio sulla follia firmato da Fulvio Carmagnola. Almeno dal punto di vista dei contenuti, non rinveniamo molte differenze con ciò che dovrebbero essere le serie riviste di settore. Vogliamo trovare almeno un neo? La distribuzione. Ma contattando la galleria o l’editore Hopefulmonster il problema si risolve.
[exibart]
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