Laureata in Storia dell’Arte e dopo una breve esperienza da Sotheby’s, Elena del Drago comincia a lavorare come critico, curando mostre e cataloghi. Dal 1999 avvia la sua lunga avventura radiofonica con la radio che ha sempre ascoltato, Radio3, prima nei programmi del mattino, intervenendo in un contenitore allora chiamato “Mattino3”, poi come conduttrice di “Aladino”. Infine, sotto la direzione di Marino Sinibaldi, è nato “A3, Il formato dell’Arte”, che ha riportato una trasmissione dedicata unicamente all’arte nel palinsesto. Nel frattempo lavora a diversi progetti, a cominciare dalla fondazione di Eddart, uno spazio di consulenza ed esposizione a Roma. Per saperne di più abbiamo intervistato a 360 gradi Elena del Drago.
Dove sei nata e dove vivi?
«Sono nata a Roma, dove vivo a giorni alterni. Appena posso, infatti, sono a Filacciano, un piccolo, bellissimo, paese a soli 50 chilometri dalla capitale».
Come ti sei avvicinata al mondo dell’arte?
«Mio padre Francesco del Drago è stato un pittore. Dipingeva moltissimo, prima quadri figurativi, poi sul finire degli anni Cinquanta è passato all’astrazione: quando sono nata era impegnato, in particolare, nello studio del colore. Mi portava sempre nei musei, mi parlava moltissimo dei pittori che amava, tanto che per me è stato difficile non occuparmi di arte!».
Quando e come è entrata la radio nel tuo percorso professionale?
«Ho sempre ascoltato Radio3, ho imparato moltissimo da alcune trasmissioni, quindi è stato un passaggio naturale quello di provare a raccontare, a mia volta, ciò che conosco e mi interessa».
A quale modello radiofonico, di divulgazione culturale ti ispiri?
«Il desiderio è quello di rendere accessibile una produzione che spesso può apparire ermetica, difficile da comprendere se non si ha una preparazione specifica. Pertanto, lo sforzo è quello di utilizzare un linguaggio molto semplice e di porre domande non troppo elaborate agli interlocutori».
Oggi conduci “A3, Il Formato dell’Arte”, in onda ogni sabato su Radio3 alle 10.50. Ci descrivi il format?
«Il programma dura mezz’ora. Ogni settimana con la curatrice, Cettina Flaccavento, scegliamo una mostra che ci sembra particolarmente interessante e ne parliamo con due interlocutori che possono essere il curatore e l’artista, oppure un esperto del tema in questione. Nella seconda parte ci occupiamo delle ultime uscite editoriali, sempre in campo artistico, presentando cataloghi, volumi libri d’artista con i rispettivi autori».
Qual è la tua giornata tipo?
«Cerco sempre di iniziare con almeno 15 minuti di yoga e di leggere prima di addormentarmi, quello che accade tra questi due poli è piuttosto differente. Dipende da troppi fattori esterni per seguire una tipologia!».
Hai dei riti particolari quando lavori?
«No, sono scaramantica, ma non abbastanza costante per avere dei riti».
Qual è l’ospite o l’incontro nel tuo programma che più ti ha colpito? Perché?
«Sono tanti! Lavoro da molti anni e ho avuto la fortuna di intervistare alcuni tra i più importanti artisti della scena italiana e internazionale. Senza pensarci troppo, risponderei Jannis Kounellis, Carla Accardi, Gerhard Richter e un anziano, meraviglioso, Malick Sidibè».
Qual è l’ospite che ancora non hai avuto e che vorresti?
«Maurizio Cattelan. Anni fa girammo un documentario intitolato “È morto Cattelan, evviva Cattelan!” e ho passato mesi, con il regista, a seguirne le tracce, a inseguirlo senza mai riuscire ad avere una conversazione con lui che durasse più di 5 minuti».
Quale protagonista dell’arte del passato avresti voluto intervistare e perché?
«Vorrei poter chiedere molte cose a Mario Schifano, perché amo moltissimo il suo lavoro, ma anche perché ho più persone a me vicine che me ne parlano, e sebbene attraverso i loro racconti mi sia fatta un’idea della sua personalità, mi piacerebbe averne una mia esperienza diretta».
Qual è la critica più forte che senti di fare al sistema della cultura e dell’arte di oggi?
«Il poco coraggio! Mi sembra ci sia una forte omologazione e per diversi anni si è guardato sempre tutti nella stessa direzione, verso le medesime latitudini, proponendo sempre gli stessi nomi. Anche quando si è guardando verso gli Outsiders, lo si è fatto spesso secondo degli schemi. Mi sembra però che ora ci sia un’inversione di tendenza».
Individuo e società: cosa ti affascina di questi due mondi? In che rapporto sono tra di loro e con il tuo lavoro?
«Indubbiamente viviamo in un’epoca profondamente individualistica, il singolo è al centro di ogni scelta, sebbene più elementi ci segnalino quanto siamo connessi gli uni agli altri. L’equilibrio tra questi due poli è la sfida che ci ha lasciato il secolo scorso».
Cos’è per te oggi veramente contemporaneo?
«Ciò che non si preoccupa troppo di esserlo!».
L’attuale esperienza dell’emergenza sanitaria del Covid-19 quale riflessione ti ha fatto maturare sul tuo lavoro, sul senso dell’arte e della vita più in generale?
«Mi ha fatto capire nel modo più duro, come a tutti, l’importanza dei rapporti umani, degli scambi che abbiamo dato per lungo tempo per scontati. E ho avuto un grande riscontro sull’importanza della narrazione, della parola dagli ascoltatori che hanno manifestato un apprezzamento speciale per le nostre trasmissioni: specialmente nei periodi di lockdown per molte persone hanno rappresentato l’unico contatto con il mondo della cultura».
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