Marc Camille Chaimowicz è un artista sfaccettato e multidisciplinare. Nasce nel 1947 a Parigi e si trasferisce presto a Londra dove inizia la sua formazione artistica, passando dall’esperienza dell’arte visiva, alla performance, alle installazioni e al design. Dopo aver subito il fascino dei Bagni Misteriosi (1973) di Giorgio De Chirico (presenti nel giardino della Fondazione Triennale), inizia a pensare con la curatrice Eva Fabbris e con il curatore della Triennale Edoardo Bonaspetti, a un progetto espositivo legato all’istituzione, per impatto architettonico e per il legame tra design e arte decorativa che permea la storia dello spazio milanese. E così, fino all’8 gennaio, è di scena alla Triennale di Milano.
Visitando “Maybe Metafisica” (questo il titolo della mostra) si nota subito un elemento importante: la circolarità, sviluppata in due ambienti. Questo tema rientra anche in molte sue performance sin dagli anni ‘70 – anni di studio londinesi – con lo scopo di abbattere il divario che intercorre tra spazio pubblico e spazio privato, tra spazio espositivo e spazio domestico, tra installazione e performance, tra arte e design.
La mostra ha inizio con un quadro di De Chirico: Il Figliuol prodigo (1973), in cui vediamo le figure di un padre e di un figlio inserite al centro di un interno spoglio e inquietante; la poetica dell’opera è intrisa di una malinconica attesa, tema caro all’artista metafisico e sviluppato già molti anni prima in alcuni suoi disegni e litografie. Sul muro su cui è appesa l’opera troviamo una carta da parati disegnata e progettata da Marc Camille, che entra in relazione con l’opera del Maestro tramite colori e forme. La suggestione di De Chirico echeggia anche per tutto il resto della mostra: dalle luci, alle opere, alla disposizione delle stesse. Viene così a crearsi una specie di deserta “Piazza D’Italia” in cui l’unica presenza umana è data dai visitatori.
È sempre negli anni ’70 che Chaimowicz realizza le prime grandi installazioni – si pensi a Celebration Real Life (1972), ora presente alla Serpentine Gallery di Londra, dove è in corso “An Autumn Lexicon”, un’importante mostra immersiva a lui dedicata – come We Chose Our Words With Care, That Neon-Moonlit Evening; It Was As If We Were, Party To A Wonderful Alchemy (realizzata nel 1975 e riproposta nel 2008 a Los Angeles). Quest’installazione, le cui misure sono state ricreate ad hoc per un angolo dell’area espositiva, presenta una tenda, una sorta di sipario nero, sulla quale appaiono alcuni tagli che creano degli scorci di luce, delle fessure da cui voyeuristicamente possiamo sbirciare, intravedendo così quello che sembra lo scenario di una festa da poco conclusa. Scorgiamo così uno spazio illuminato da un ampio spettro di luci, alcuni specchi, oggetti quotidiani e fiori freschi. La sensazione che pervade il tutto è ancora quella della malinconia e di un tempo non più recuperabile.
Vicino troviamo un’altra carta da parati, su cui ritornano alcuni pattern, raffiguranti diverse forme e colori. Accanto a questa, di fronte al lavoro di De Chirico, troviamo un pannello su cui appare una citazione del Mistero Laico di Jean Cocteau scritta a mano dall’artista: “Picasso. De Chirico. I futuristi. Gli espressionisti. I giovani li combinano, li raffinano, non riuscendo a venirne a capo, più di quanto vengano a capo di Lautréamont o di Rimbaud. Quanto mi interessa maggiormente un giovane pittore che, per venirne fuori, cerca a tentoni la maniglia della porta. Troppi figli legittimi sono nati da un matrimonio borghese tra Picasso e De Chirico. Voglio un ragazzo terribile”.
Il riferimento alla maniglia della porta non avviene a caso; infatti poco più avanti, troviamo l’enigmatico Project For A Rural House (2003-2016), un progetto per una casa rurale mai realizzato: si tratta di una struttura architettonica che riproduce la facciata di una casa, dotata di finestre il cui ingresso rimane inaccessibile. Risulta così uno spazio completamente privato in cui non si può entrare. Ancora una volta un ostacolo che crea un’impossibilità comunicativa, che diviene molto chiara con la piccola maquette, presentata come progetto pubblico a Southampton (rifiutato nel 1974), in cui l’artista ripropone in piccolo formato degli edifici in rovina in uno spazio aperto, dove vediamo dei mezzi archi e, per la prima volta, delle persone che cercano invano di comunicare tra loro.
Il resto della stanza è connotato da una forte ispirazione architettonica, a partire dalla tenda in raso di cotone (su cui sono stampati alcuni disegni simili alla carta da parati), inserita in un box ligneo che piega il tessuto creando un effetto ottico a colonna: la leggerezza diviene così architettura e l’architettura leggerezza. Questo elemento della dicotomia è riscontrabile in tanti suoi lavori, come nel corner piece degli anni ’80 – posto accanto a un muro costruito appositamente per accoglierlo – in cui possiamo seguire con lo sguardo forme spigolose e forme fluide in completa armonia tra loro.
Vediamo poi i grandi protagonisti della sala: gli Arches (1975-2016) e la Two-Speed Staircase (1999-2016), entrambi costruiti con un bellissimo legno omogeneo e non trattato. I primi sono dei mezzi archi ideati nella seconda metà degli anni ’70 e qui rifatti, che richiamano ancora una volta De Chirico; la seconda invece è un’installazione di 7 metri d’altezza, in cui è presente una scala a due velocità, illuminata con un’ampia gamma cromatica, creando così la necessità di riadattamento dell’occhio e del corpo a una nuova dimensione: spaziale e interiore.
A metà della stanza possiamo intravedere lo spazio accanto tramite una losanga, elemento architettonico che permette di guardare fisicamente verso un’altra dimensione. Ancora una volta l’artista taglia lo spazio e catapulta lo sguardo del fruitore verso uno spazio-altro. Cosa che avviene anche con l’elemento fotografico: proiettata su muro, ecco uno slide show del ‘74 che dà nuovamente l’idea di spiare da una fessura una situazione intima; nelle foto vediamo un interno domestico in cui sono presenti alcuni amici che compiono delle azioni molto abituali, come fumare una sigaretta, rispondere al telefono, guardare fuori dalla finestra o bersi un caffè, intervallati da close-up molto stretti di fiori dalla forte matericità e dalla superficie vibrante.
L’ultimo corridoio dà una sensazione completamente diversa: la luce è chiara e omogenea, così da creare appositamente pochissime ombre sui muri. Su quello di destra troviamo dei vasi in ceramica che poggiano su delle mensole di legno non decorate, somiglianti ai mezzi archi della stanza accanto, la cui presenza diviene quasi architettonica, creando un movimento lungo la parete. Di fronte invece troviamo alcuni bronzi dall’intenso blu, dedicati a Venezia e al mare italiano, realizzati dalla Fondazione Battaglia di Milano: emergono forme di conchiglie, pasta e bottoni.
Lungo tutto il percorso espositivo percepiamo come per l’artista, un ambiente, un oggetto, non sia mai fatto e finito, ma continui a vivere sulla base del posizionamento in un altro contesto e a contatto con altre opere, ricostruendosi e ricalibrando di volta in volta il proprio significato. Ed è proprio su queste basi dinamiche e multidisciplinari che intuiamo come l’artista possa essere tanto amato dalle generazioni a lui successive. Dunque, una mostra che non punta solo sulla suggestione sensoriale, ma un progetto artistico che prende a cuore la dimensione concettuale dello spazio-tempo tramite luci, colori, forme e citazioni.
Micol Balaban