Da qualche tempo l’arte e la realtà tendono ad inseguirsi, anzi a confondersi, quasi a voler attuare la profezia evocata da Jean Baudrillard nel suo testo La scomparsa della realtà. Così, se gli attentati terroristici sembrano opere di Maurizio Cattelan e i film raccontano i paradossi del mondo dell’arte contemporanea, anche le inaugurazioni delle mostre dedicate alle artistar si sono trasformate in palcoscenici per chi cerca un successo mediatico tanto visibile quanto effimero. Così è successo durante la mostra di Marina Abramovic a Palazzo Strozzi, aggredita dall’artista praghese Vaclav Pisvejc che gli ha rotto un quadro in testa. Un gesto di matrice populista, che ricorda quanto sta avvenendo in politica: non accettiamo più le élite e i loro rappresentanti, perché crediamo di poterci mettere al loro posto, dimenticando di essere privi della loro preparazione ed esperienza. In un mondo virtuale dominato da Facebook, Instagram e Twitter, come tutto appare uguale in rete deve essere uguale anche nella realtà fisica. Come scrive il sociologo coreano Byun-Chul Han, siamo tutti schiavi della “completa visibilità”: esistiamo soltanto in rete e siamo storditi dall’ipercomunicazione digitale. Quindi l’azione di Pisvejc può essere letto in questo modo: una disperata ricerca di attenzione condotta però con modalità non distanti dalle performance di Marina (che però, sottolinea, non ha mai commesso atti di violenza su altri, ma soltanto su se stessa), che aggiunge ad una corretta e lucida celebrazione di cinquant’anni di carriera un inquietante sconfinamento nell’attualità. Si intitola “The Cleaner” l’antologica della Abramovic, prodotta in collaborazione con il Moderna Museet di Stoccolma, il Louisiana di Humlebaek e la Bundeskunsthalle di Bonn, aperta fino al 20 gennaio a Firenze.
Marina Abramović, The Cleaner, vista della mostra, Foto di Alessandro Moggi
Curata da Arturo Galansino in maniera impeccabile, è divisa in due sezioni: le prime opere, eseguite dal 1965 al ‘75, sono allestite negli spazi sotterranei dell’ex Strozzina, mentre le performance con Ulay (1976-1988) e i lavori successivi (1991-2017) nel piano nobile. Una divisione utile e necessaria, che permette di concentrare l’attenzione sulle opere giovanili, meno note ma assai interessanti per comprendere gli sviluppi successivi della sua arte. Mi riferisco a dipinti come Self-Portrait (1965) ma soprattutto Truck accident II (1963) e Truck accident I (1963), che sono contemporanei dei Car Crashes di Andy Warhol, avviati proprio nel 1963.
Marina Abramović, The Cleaner, vista della mostra, Foto di Alessandro Moggi
Analizzati in catalogo da Tine Colstrup, queste tele rivelano l’interesse di Marina, allora appena diciassettenne, per gli scontri violenti tra camion che vedeva transitare le strade di Belgrado, per accorrere sul posto e scattare una serie di fotografie quando avveniva qualche incidente. In questa sezione è presente anche l’opera che da il titolo alla mostra, “The Cleaner,” la lavatrice protagonista della prima performance domestica (e involontaria) della giovane Abramovic (1958/2018), quando mise un braccio nel cestello di una lavatrice e fu salvata per miracolo. «The Cleaner fa riferimento – spiega l’artista – al momento in cui si pulisce la propria casa e si fa pulizia del passato e della memoria». E il passato di Marina è molto legato all’Italia, dove comincia ad esibirsi molto giovane, a partire dalla performance Rythm 10 (1973) alla mostra Contemporanea a Roma, seguita da Rythm 4 alla galleria Diagramma di Milano (1974) Rhytm 0 (1974) realizzata presso lo Studio Morra a Napoli, quando Marina stava per essere uccisa dal pubblico, Relation in Space (1976) alla Biennale di Venezia, dove compare per la prima volta Ulay, e Imponderabilia alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna nel 1977, ora riattualizzata all’ingresso del piano nobile di palazzo Strozzi. Nell’Italia coraggiosa e visionaria di allora Marina trova terreno fertile per le sue prime opere, dove spesso il suo corpo, (prima da solo e poi insieme a quello di Ulay) si sottopone a prove di resistenza spesso estreme. Vent’anni dopo sarà ancora in Italia, con Balkan Baroque (1997) l’installazione alla Biennale di Venezia dove l’artista puliva per tre giorni una catasta di ossa di bue, che Marina vince il Leone d’Oro. Per questa ragione è importante visitare questa mostra, per capire quanto l’Italia ha dato all’arte contemporanea in periodi non così lontani, quando la cultura non era un nemico da abbattere ma una felice e feconda condizione di vita.
Ludovico Pratesi