Sono arrivata nel borgo di Civitella del Tronto, nel cuore selvaggio dell’Abruzzo in un mattino assolato di luglio, incredula per la bellezza naturalistica del luogo mi sono inerpicata verso la fortezza, un luogo di stupefacente maestosità con i suoi ben 25mila mq di superficie. Qui ha inizio la scoperta del progetto “Cultura Contemporanea nei Borghi”, una manifestazione multidisciplinare che oltre a presentare tre mostre di grande qualità offrirà per tutta l’estate un programma ricchissimo di appuntamenti con il cinema, la letteratura, la musica, il teatro e l’enogastronomia. Questo miracolo locale è il frutto della collaborazione fra due realtà private: la Fondazione Malvina Menegaz per le Arti e le Culture con sede nel borgo di Castelbasso e l’Associazione Culturale Naca Arte di Civitella, che hanno deciso di fare sistema per creare una rete che attraverso la cultura e l’arte possa valorizzare non solo la memoria, ma anche il presente di luoghi speciali e ricchi di storia con l’intervento di artisti, poeti, scrittori e musicisti.
“Visioni – La Fortezza plurale dell’Arte” è il titolo scelto da Giacinto di Pietrantonio e Umberto Palestini i curatori della grande collettiva allestita nella suggestiva e impegnativa scenografia della fortezza di Civitella. Che cos’è una visione? Per Jonathan Swift, l’eccentrico creatore di Gulliver e dei suoi mitici viaggi in mondi impossibili, è «l’arte di vedere ciò che è invisibile agli altri» e questo è certamente l’assunto teorico da cui i due curatori sono partiti per viaggiare con gli artisti e le loro opere fra i muri, le segrete, le grotte e la piazza d’armi di un luogo che di per sé è una sorta di opera d’arte perfettamente conchiusa.
Il percorso attraverso le visioni degli artisti comincia nella prima delle piccole celle a destra della scalinata di arrivo, dove il visitatore è accolto dall’opera del 1976 di Michelangelo Pistoletto dal titolo Chi sei tu?, sullo schermo nero di un vecchio televisore con tubo catodico la scritta “Chi sei tu?” si alterna rapidamente, bianca su fondo nero e viceversa, per tutta la durata del video mentre la voce dell’artista con tono neutro fa da contraltare alla scritta, elencando tutte le nazionalità a cui non appartiene. Un lavoro perfetto per sottolineare che si sta entrando in uno spazio, quello dell’arte, che non è più solo fisico ma anche mentale e che, quindi, bisogna cercare di andare oltre la mera impressione retinica per cercare di vedere con gli altri sensi.
Il bastione che sovrasta l’arco ogivale dell’ingresso è sormontato da un grande light box a forma di occhio umano, un lavoro “site-specific” di grande impatto di Patrick Tuttofuoco, un’opera che si inserisce all’interno della sua recente ricerca sugli aspetti del volto e con cui l’artista reiventa la percezione del contesto urbano. Un occhio gigante che osserva lo spettatore, metafora molto ben riuscita della condizione di costante monitoraggio in cui vive più o meno consapevolmente l’essere umano contemporaneo e che, agli amanti del genere fantasy, non può non ricordare la torre di Gondor con l’occhio onnisciente di Sauron partoriti dalla mente da un altro visionario, quel J.R.R. Tolkien padre della trilogia del Signore degli Anelli.
I saggi ci dicono che l’unico vero viaggio che vale la pena di compiere è quello all’interno di noi, entrare nella grotta dalla forma simbolicamente uterina dove, alla fine del percorso/viaggio, sopra uno specchio d’acqua immobile che funge da cassa di risonanza liquida, si diffonde beffarda la risata dell’opera D’Io di quel genio di un visionario contemporaneo, che è stato Gino de Dominicis, un’esperienza che non solo vale il viaggio ma che è forte come una meditazione. La piazza d’armi è in parte occupata dall’installazione ambientale del 1968 Grazia & Giustizia, con Milite Ignoto e Carabinieri di Gianni Pettena, il fondatore dell’architettura radicale italiana che da buon visionario già alla fine degli anni Sessanta abbatteva i confini fra le discipline artistiche, adottando il linguaggio dell’Arte Concettuale per far dialogare le opere con l’ambiente. Il lavoro, che ha chiari intenti ironici e critici, è un mezzo potente per far dialogare l’attualità con la memoria storica di un luogo in cui veniva anche amministrata la giustizia.
In un magazzino, nel cuore della cittadella, è installato il lavoro del 1988 dell’artista olandese Jan Fabre De Schelde. Hè-wat-een-plezierige-zottigheid! (La Schelda. Questa pazzia è fantastica!) in cui il labile e fluido confine fra vita e morte è esplorato attraverso una simbolica performance in cui l’artista cala in acqua delle parole in vetro veneziano blu abbandonandole alla corrente lenta del fiume che pian piano le porta lontano smaterializzandole come se fossero state dei sogni. Molto bello il lavoro della giovane Valentina Vetturi che nel lavoro Marcia per un coro del 2012, ottimamente installato in una piccola cella in cui la luce che entra dalle feritoie della finestrella è di grande suggestione visiva. L’intervento pur essendo minimo, tracce audio che raccontano di una donna scomparsa con una chiara allusione all’efferato omicidio di Melania Rea il cui cadavere fu trovato proprio nell’ameno boschetto che costeggia la fortezza, lavora con forza e con una buona dose di inquietudine sul nostro immaginario. Ottima l’idea di allestire su dei tavoli, in un continuum stilistico omogeneo, alcuni lavori presentati nelle piccole botteghe che si aprono sull’arteria principale della cittadella. Si trovano sui tavoli le opere di Stefano Arienti, Maurizio Cattelan, Joseph Beuys, Giovanni Lazzari e Giuseppe Stampone che ha presentato Mappa. Global Dictature, un lavoro politico che però non tradisce quel tocco di ironia tipico dell’artista in cui viene approfondito il discorso sulla globalizzazione e sul concetto di nazione.
La parte più debole di un’esposizione di grande qualità è probabilmente quella “collettiva” e a mio avviso meno visionaria presentata nel piccolo museo della cittadella con le opere di Vanessa Beecroft, Enzo Cucchi, Maria Morganti, Ettore Spalletti, Sandro Visca e Alessandro Mendini.
Lasciamo Civitella per Castelbasso, una piccola isola medievale sopravvissuta alla modernità, dove nella sede della Fondazione Menegaz a Palazzo Clemente, Laura Cherubini ha curato “Smarrire i Fili della voce”, piccola e preziosa mostra di Carla Accardi, la signora dell’Astrattismo italiano il cui lavoro è oggi un punto di riferimento fondamentale per molti giovani artisti. In questa mostra, scrive la curatrice «…le opere sono legate da sottili ma solide relazioni ed emerge il rapporto tra i nuovi quadri inediti…e le opere tridimensionali». L’installazione davvero perfetta mette in relazione il passato con il presente e tutta l’esposizione si snoda con un ritmo visivo armonico e avvolgente.
I piccoli “sicofoil” incastonati in alto nel muro «brillano come gemme preziose» e tutta la mostra è la riuscita rappresentazione formale di un dialogo perpetuo e sottile fra opere e ambiente.
Ma c’è dell’altro. A Palazzo de Sanctis Eugenio Viola ha curato una collettiva di undici artisti dal titolo “Radici”, una mostra che sono felice di annoverare fra le migliori viste nel corso dell’anno. Le radici sono il principio e la causa dell’origine delle cose, questa la base critica da cui è partito il curatore per esplorare il senso della storia, il sovvertimento dei valori, lo sradicamento del territorio e l’isolamento culturale di un mondo globalizzato e ferito. Undici artisti fra i più interessanti della scena internazionale per analizzare i concetti attualissimi di identità, memoria e cambiamento. Marina Abramovic e il folklore tragico e stereotipato delle donne-baccanti della performance Balkan Erotic Epic, Carlos Garaicoa e la sua visione della realtà urbana dell’Havana, fatiscente utopia castrista, erosa e segnata dal tempo che diventa metafora sociale e politica. Moataz Nasr, egiziano, scolpisce i simboli dell’odio religioso, moschee, minareti, cupole di chiese cattoliche, zigurrath e templi orientali, che diventano fragili e preziose icone ideologiche. E ancora il disturbante, intenso e bellissimo video di Regina Josè Galindo, in cui nuda e indifesa è simbolicamente seppellita da un uomo indifferente che spala terra da una fossa da morto. Jota Castro, l’artista peruviano che ha abbandonato una brillante carriera diplomatica per dedicarsi all’arte e, come artista, a farsi interprete della sua epoca e del risveglio delle coscienze sopite del suo popolo. L’americano Sam Durant qui presenta l’installazione scultorea Propaganda of the deed del 2011 un lavoro dedicato ai rappresentati del movimento anarchico italiano a cavallo fra i due secoli. E ancora Alfredo Jaar, Giulia Piscitelli, Santiago Sierra, Bert Rodriguez e Mariangela Levita. Una mostra interessante, criticamente solida, molto ben allestita e di grande attualità concettuale che è un peccato non andare a vedere.
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