Ai confini della memoria

di - 3 Settembre 2017
Il curatore, mitica figura abituata a saltare dalle stelle alle stalle (e viceversa) dell’iperbolico universo dell’arte contemporanea. Se non esistesse probabilmente non saremmo qui a parlarvi di “Shelters and libraries” (a Genova, da Abc Arte, fino al 6 ottobre) e del suo terzetto composto da Adalberto Abbate (Palermo,1975), Gaetano Cunsolo (Catania, 1986) e Davide D’Elia (Cava dei tirreni, 1973). Un curatore, o meglio, un fine “regista” come Pietro Gaglianò, che con questa collettiva intende mettere il dito nella piaga nelle marginalità prodotte all’interno della cultura occidentale; quella che lui stesso definisce «euroamericana» e che sigla come «un punto di non ritorno», ragionando sul rifugio come luogo di conservazione della memoria, e partendo da questo per lo sviluppo di nuovi sistemi espressivi. Come? Lavorando sull’oggetto di scarto, a cui ognuno dei tre artisti a suo modo conferisce un peso, ricondizionandolo al servizio di specifiche situazioni narrative.
Per capire meglio il temperamento di “Shelters and libraries” passiamo la palla direttamente a Gaglianò, non prima però di regalarvi il nostro piccolo vademecum. Segnalandovi che il più spinto di tutti è sicuramente Abbate, per cui la rimodulazione sintattica di finti capodimonte – appartenenti alla serie Rivolta – porta in mostra piccole statuette che fanno molto “casa della nonna”, con corredo bucolico di coniglietti, cagnolini, fisarmoniche e fasci di grano. Coprire i loro modi gentili, vestire le loro iconografie tutto sommato familiari mettendogli in testa un passamontagna – simbolo dei black block, reso dai media non meno familiare – crea un cortocircuito iconografico di un certo spessore espressivo. Cunsolo dal canto suo non scherza, più certosino recupera scarti di materiale in giro per Genova per creare il suo rifugio-torretta, quello Study of watchguard rialzato e ricercatamente inaccessibile che insieme arriviamo a definire come un “architettura impossibilitata all’utilizzo”. D’Elia gioca sul binomio caldo/freddo dedicandosi a superfici ataviche – per fare al caso suo devono «avere almeno cento anni» racconta – ricoperte di una squillate pittura antivegetativa, una pittura a suo parere «controsenso», che «imita l’acqua, elemento naturale, ma non permette lo sviluppo di alcuna forma organica».
Tre artisti dalle poetiche silenti e dai modi espressivi decisi, affini pur nelle loro espresse diversità.
Ecco il nostro botta e risposta col curatore.
Shelters and libraries – installation view – courtesy Abc Arte
D’Elia mette pittura antivegetativa su arazzi raffiguranti elementi vegetali, Cunsolo unisce il bronzo prodotto a cera persa con veri resti architettonici post bellici e Abbate crea evocativi falsi storici nella serie Build Destroy Rebuild. Si sbaglia a pensare che l’ibridazione tra elementi opposti sia il comune denominatore in questa mostra?
«Il punto di partenza del progetto è la costruzione dell’identità, individuale e collettiva, rivisitata criticamente proprio a partire dall’ibridazione, dall’interpolazione di fattori tra loro non continui, espressamente per mettere in crisi gli strumenti e le immagini che diamo per scontati nel corso di questa edificazione. Contaminare tra loro mondi non prossimi significa rimettere in gioco tutto quello che sappiamo sull’universo in cui ci muoviamo, e il lavoro dell’artista riesce a moltiplicare questa operazione fino a creare un vero déplacement, sia negli apparati della memoria sia in quelli della funzione cognitiva, e quindi della costruzione dell’identità».
Resto ancora sull’ibridazione, che mai come in questo caso porta ogni artista a sviluppare nuovi sistemi espressivi. Ma anche ad essere una sorta di “falsario” rispetto alla memoria di partenza, quella che potrei definire “ufficiale”. Che ne pensi di questo rapporto?
«Ogni autore di “un passato” consegnato come ufficiale è un falsario, e in questa sede si trovano tutti i detentori di una qualsiasi forma di potere in grado di imporre la memoria ufficiale. Gli artisti compiono proprio l’azione opposta: smascherano le mistificazioni e aprono lo spazio a nuove possibilità di lettura, interpretazione, ricostruzione».
Shelters and libraries – installation view – courtesy Abc Arte
A tuo dire in “Shelters and libraries” Abbate, Cunsolo e D’Elia “riflettono sulle macerie”. Quanto le macerie, intese sia come “scarti” sia come “elementi preesistenti e passati”, possono costituire un terreno fertile per l’arte contemporanea? Mi riferisco a questo caso specifico, ma anche più in generale.
«Il sentimento degli artisti per le macerie è sempre di tipo generativo. Se l’arte si limita ad agire nel dominio del legittimo ha un carattere solo cosmetico. Le macerie, il margine, tutto quello che fa parte del sommerso, sono in grado di rivelare la complessità del nostro tempo in modo molto più profondo di quanto non faccia la cultura ufficiale (comprendendo qui anche le macerie autorizzate, quelle che giacciono nelle teche dei musei e nei siti archeologici). Come scrive Adrian Piper, “I margini sono il luogo dove viene realizzato il lavoro più avanzato, eccitante, originale, da artisti che si sono distanziati dallo status quo sia politicamente sia esteticamente”».
Shelters and libraries – installation view – courtesy Abc Arte
Hai dato ad ogni artista un suo spazio, una sala dedicata, ma – come sei tu stesso a dire – nel segno della coralità. Quanto ogni singolo artista e la sua interazione con l’ambiente della galleria ha modificato e/o condizionato le tue scelte di curatore?
«Il mio lavoro con gli artisti si basa su un rapporto di fiducia incondizionata, ho lasciato in larga parte che gli artisti confluissero nello spazio cercando di non condizionarli. La mostra che ne è venuta fuori corrisponde molto fedelmente al disegno iniziale. Credo che questo dipenda dal fatto che la mia fiducia è sempre ben riposta, e forse anche ricambiata. Come critico compio delle scelte a monte, come curatore (una qualifica che mi descrive solo approssimativamente) faccio una mera operazione di fiancheggiamento, una regia sommessa, una pratica di ascolto».
Affermi di aver voluto giocare con una soluzione museale, consapevole d’essere in tutt’altro contesto e con ben altre mire in fatto di dinamismo espositivo. Hai forse creato il rifugio perfetto?
«Il rifugio perfetto è quello capace di modificarsi nell’arco di un tempo brevissimo. In questo senso la mimesi con i display museali gioca in una posizione antagonista. Le opere si pongono in una strana intangibilità (che è quella del museo) ma non recano né il peso né l’autorità del reperto. Forse sì, forse è il rifugio perfetto, l’arte lo è quasi sempre».
Andrea Rossetti

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