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22
novembre 2015
Alice Schivardi figlia unica e situazionista
Progetti e iniziative
Un lavoro fatto all’interno di diversi nuclei familiari apre questioni delicate e complesse: l’appartenenza, l’identità etnica. E come si entra in queste. Quasi come un virus
È una collezionista di storie, Alice Schivardi. Lo fa con un mezzo semplice, lento e paziente, quale è il ricamo, e lo fa con un mezzo molto più diretto e veloce qual è il video. Ma sostanzialmente il tema rimane lo stesso: le relazioni umane, nella loro dimensione più intima, di coppia e matrimoniale, e sotto la macro lente dei fenomeni sociali e delle loro logiche. L’osservazione della realtà, con i particolari echi e risonanze che nascono nell’animo dell’artista, è il punto di partenza per la costruzione di un mondo fatto di appunti, memorie visive e elementi fisici diversi tra loro. Un mondo intersoggettivo in cui le sue esperienze e i racconti delle persone con cui si è relazionata diventano gli attivatori del processo creativo. Alice Schivardi, come un abile illusionista, trasfigura la realtà attraverso la lente deformante dell’arte, facendola diventare altro da sé, in una sorta di sublimazione che corregge l’esperienza per realizzare una perfetta sovrapposizione del dato fisico con quello fantastico.
Negli ultimi quattro anni, l’artista è riuscita a entrare in relazione con vari gruppi familiari, in Italia e all’estero, alcuni dei quali peraltro poco aperti al confronto con lo straniero. Schivardi è però riuscita a conquistarne la fiducia, al punto da ottenere di essere truccata e vestita come loro e, al termine di questa trasformazione, di essere fotografata in una foto ricordo tipicamente familiare. In questi scatti finali, Schivardi è a tal punto mimetizzata da inserirsi perfettamente nel gruppo e da diventare un suo membro effettivo, tanto da dichiarare: «Ero figlia unica», affermazione che non a caso dà il titolo alla mostra in corso alla Fondazione Pescheria di Pesaro fino al 29 novembre (a cura di Ludovico Pratesi e Paola Ugolini).
Andando oltre il concetto di Arte Relazionale e di lavoro politico sul corpo, in queste immagini, che potremmo tranquillamente trovare sulla credenza di un salotto di una famiglia tamil piuttosto che filippina o rumena, l’artista diventa l’interprete principale e il filo conduttore di un lavoro che affronta il tema estremamente attuale delle identità culturali e razziali fino a formare una narrazione visiva di contenuto socio-antropologico.
Ma non solo. Toccando un tema altrettanto denso quale è quello della famiglia, sia pure affrontato attraverso la mediazione sociale: i gruppi etnici e culturali, la cui pregnanza oggi quasi mette in secondo piano l’appartenenza a un nucleo familiare, e inserendosi come un virus, una presenza estranea ma camuffata a tal punto da rendersi irriconoscibile, Alice Schivardi mette in atto una strategia artistica che potremmo definire “situazionismo familiare”: entrare nel tessuto vivo della famiglia, appropriarsi di alcuni suoi stilemi e produrre una realtà derivata (la foto), una sorta di “postproduzione fattiva e concettuale”, che attesta l’esserci in quel contesto. Da questo punto di vista, il lavoro di Alice Schivardi si pone frontalmente come molto innovativo nel trattare la sfera privata che, grazie alla messa in gioco di dispositivi linguistici e culturali (gli abiti, le fogge, le acconciature, i gioielli, l’ambiente domestico, la stessa gerarchia familiare che emerge dalle foto) incrocia l’orizzonte più generale dell’identità etnica. Da questo punto di vista c’è un passo in avanti rispetto al lavoro di altre artiste, come per esempio Sophie Calle, che hanno esplorato le ricadute della loro intrusione nella sfera intima di persone anonime. Nel lavoro di Schivardi, infatti, il piano privato si salda a quello pubblico, grazie anche alle immagini realizzate nello stile di posa dei vecchi studi fotografici.
La storia delle relazioni intrecciate dall’artista con i diversi nuclei familiari incontrati le ha poi fornito il materiale per realizzare i due fregi ricamati e i 14 disegni a ricamo che compongono il suo nome esposti nel Loggiato della Pescheria di Pesaro. Questo lavoro è il risultato della residenza all’ISCP di New York dove Alice Schivardi è stata per circa sei mesi nel 2014 e durante i quali ha intervistato svariati membri della comunità multietnica del quartiere in cui viveva chiedendogli di pronunciare correttamente il suo nome, operazione molto impegnativa per uno straniero, riprendendoli poi con una telecamera. Le 14 lettere che compongono il nome e il cognome dell’artista sono diventate altrettante bocche disegnate su carta da lucido ognuna colta nel momento della pronuncia della vocale o della sillaba. «Un modo per costruirmi una tifoseria assolutamente privata, ma efficace», rivendica con piglio scanzonato e un pizzico di orgoglio Schivardi.