22 gennaio 2013

Alighiero e i suoi amici

 
Il giorno in cui a Roma si intitola ufficialmente ad Alighiero Boetti la piazza del MAXXI, si apre nel museo una mostra dedicata a lui, al momento del suo arrivo nella Capitale. Dove incontra Ontani e Clemente. Anche loro "espatriati", con i quali stringe un sodalizio che passa tra l'arte, l'infatuazione per l'Oriente e un certo vissuto di Roma. Pochi pezzi, rari da vedere, da cui emerge la poesia di un artista sempre più studiato e amato. In Italia e all'estero [di A.P.]

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Negli anni Settanta, abbuiati dal terrorismo, Roma riesce a sorprendere. Nel 1973 Achille Bonito Oliva, con l’insostituibile complicità di Graziella Lonardi Buontempo e la collaborazione dell’architetto Pietro Sartogo, invade il parcheggio sotterraneo di Villa Borghese con la mostra “Contemporanea”. Evento epocale dal punto di vista dell’allestimento espositivo, per la vastità dei linguaggi in scena e il coinvolgimento attivo degli artisti. Poco prima, appena fuori quel parcheggio, Christo aveva impacchettato le Mura Aureliane, dando alla città eterna una nota di contemporaneità, che non la riporta alla gloria di due decenni precedenti, quando alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna esponevano artisti come Picasso e Pollock e altri, come Cy Twombly, la sceglievano per viverci, ma contribuisce a rivitalizzarne il clima che si era già acceso con le mostre, altrettanto epocali, che per esempio si tenevano nella nuova sede dell’Attico di Fabio Sargentini a via Beccarla, inaugurata nel ’69 con i “Tredici cavalli” di Kounellis.

Per queste ed altre ragioni, Torino che, negli anni Sessanta, era stata la città della nuova arte, Povera e non solo, perde quota, nel senso che perde alcuni dei suoi protagonisti. Gian Enzo Sperone trasloca a Roma, così fa anche Luciano Pistoi. E soprattutto abbandona la natia Torino Alighiero Boetti. È l’ottobre del 1972. E comincia una nuova storia, quella di «Alì Ghiero, il beduino in transito, accampato accanto al Pantheon», come la raccontava l’artista, e quella dell’arte a Roma che di Boetti subisce una profonda influenza.

Due anni prima altri due “stranieri” erano arrivati nella Capitale: Luigi Ontani, dall’Appennino bolognese e, appena diciottenne, il napoletano Francesco Clemente. Una delle prime persone che Boetti conosce nella città, dove vi arriva direttamente dal suo quarto viaggio in Afghanistan, è Ontani. E Ontani presenta a Boetti il giovane Clemente, che gli farà un po’ da assistente e molto da discepolo. Tutti e tre vivono Roma come Porta dell’Oriente, viatico per quell’area del mondo di cui sono infatuati. Boetti è di casa a Kabul, con il suo One Hotel, Ontani conosce e ama l’India, Clemente la conoscerà e l’amerà di lì a poco, passando prima per la Kabul del suo mentore.

«Boetti, Ontani ed io eravamo a Roma perché non volevamo essere altrove. Cercavamo un non luogo», spiega Clemente, esprimendo con un efficace corto circuito semantico quella scelta che fa della città eterna quasi una categoria di uno spirito nomade, ma poco dionisiaco. L’ebbrezza dionisiaca, data dall’essere straniero, dove la sperimentazione artistica si mischia a quella psichedelica, è altrove. Nell’amato e liberatorio Oriente, ma Roma lo avvicina. Liberando, a sua volta, l’arte di Boetti, che fino allora era rimasta piuttosto fedele al verbo concettuale torinese. Nel “non luogo” romano, invece, può emergere la particolarità del suo linguaggio che mi verrebbe da chiamare “poesia concettuale”.

«L’arrivo di Boetti a Roma è uno dei rari capitoli della sua vicenda artistica poco studiati in una bibliografia che si fa sempre più sterminata», spiega Luigia Lonardelli che al MAXXI ha curato la mostra “Alighiero Boetti a Roma”, che si apre oggi, 22 gennaio (fino al 6 ottobre). «Per questo abbiamo pensato di concentrarci su questo momento della sua vita. E di farlo, affiancando alle sue opere quelle dei due amici di quegli anni, Ontani e Clemente». Un’idea non male, per bolinare, non solo nella ingente bibliografia, ma anche in una fama in costante crescita che forse erode i margini di ulteriori pronunciamenti critici, offuscati e complicati dalla potenza dell’icona Boetti. Basti pensare al film francese appena uscito Après Mai, malamente tradotto in italiano in Qualcosa nell’aria, in cui un giovane sessantottino indeciso tra l’arte e la politica, racconta di un viaggio fatto a Kabul dove ha conosciuto un artista italiano di nome Alighiero Boetti. E naturalmente ne è rimasto affascinato. Poi il MAXXI sorge a Roma e sulla Roma di quegli anni Boetti incide molto, quasi fin da subito e soprattutto in seguito, con giovani artisti e giovani critici che frequentavano la sua casa generosamente aperta.

Ad inaugurare quella che non ha la pretesa di essere la “mostra italiana” su Boetti, né tanto meno competere con la grande esposizione sull’artista italiano contemporaneo oggi più studiato al mondo che, dal Reina Sofia di Madrid, è passata per la Tate Modern di Londra e si è conclusa un anno fa al MoMA di New York, ma si accontenta più modestamente di essere un focus ben fatto su un momento particolare della vita dell’artista, è un video di Jonathan Monk che ha per oggetto i laghi di Band-e Amir in Afghanistan dove “Alì Ghiero” voleva fossero disperse le sue ceneri. Subito dopo si apre una parete dell’ “Ontani indiano”, con foto realizzate per lo più in studio a Madras, come il Cristo sulle acque piuttosto raro da vedere, e altre che risalgono alla fine degli anni Settanta e gli Ottanta, tra cui il Krishna di Fabio Sargentini. Di Ontani mancano le opere più boettiane, che sono invece in mostra nel vicino museo Andersen. Visibilmente ispirati dalla poetica del Maestro sono invece i dipinti di Clemente, per lo più risalenti al 1978, in una fase quindi pre transavanguardia, dove si mischiano elementi spuri: divinità indiane con aerei cappelli alla Magritte, e dove già molto forte è il tocco visionario, ma qui delicato e non drammatizzato, di Clemente.

Di Boetti compaiono alcune opere poco viste – «ho cercato soprattutto pezzi che avessero una caratura affettiva», spiega Lonardelli – che incorniciano due grandi carte, le Orme, date al museo in comodato d’uso per cinque anni dal primo figlio dell’artista, Matteo Boetti, gesto da cui è nata l’idea della mostra. Faccine è stata disegnata insieme alla figlia Agata e l’opera, di cui esistono altre più note versioni, improvvisamente mi ricorda gli Spermini di Cattelan. Quanti crediti potrebbe esigere lo “Shaman Showman” dagli artisti italiani e non solo! Ci sono poi un paio di quadri, non eccezionali ma con il raro tratto del pennello, due bellissimi tappeti che l’artista faceva tessere solo per gli amici più stretti, due Mappe, di cui una molto vecchia, del ’71, di proprietà del MAXXI e un altra, del 1984, dove l’Afghanistan rimane bianco, a chi apparteneva a quel punto quella terra così amata dall’artista? Ma soprattutto, pur in non molte opere presenti, c’è quell’incanto che l’arte di Boetti emana. Dove l’intricato percorso concettuale si scioglie in segni leggeri. Dove la pratica artistica fatta con lo scambio di mano, quando è il turno della sua mano, sorprende l’occhio con invenzioni gioiose e giocose, da cui traspare quel piacere del fare e rifare, di “stare sul pezzo” ma con visionaria fantasia, che appartiene ad alcuni grandi artisti.

Poi, frugando ancora qui e là con lo sguardo, ecco un’opera della serie La natura è una faccenda ottusa (che titolo geniale!), un Mimetico assemblato di proprietà del MAXXI, Clessidra, cerniera e Viceversa, quasi commovente nella sua semplicità inventiva, alcuni pezzi del Fregio, originariamente composto di 28 elementi che stava sopra una delle due Orme che Boetti decide di esporre alla Biennale di Venezia del ’90 dove si aggiudica il Leone d’Oro, ma soprattutto l’eccezionale sequenza del Poesie con il Sufi Berang.

Beh, questa opera vale il viaggio. Imponente, colorata come solo gli arazzi di Boetti sanno essere, che apparentemente (e non solo apparentemente) racconta una e più storie, ma senza l’inutile irruenza di un gesto narrativamente espressionista. E più la guardi e più ci sprofondi dentro, tra quei colori e quegli innumerevoli segni. Senza però riuscire a capire quello che vi ha scritto il Sufi Berang, amico di Alighiero, che interviene sui fitti ricami realizzati dalle donne afgane. Lo stesso Sufi che sposò Boetti e la sua seconda moglie, Caterina, proprietaria della superba opera.

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