Dagli anni ’60 a oggi tante turbolenze estetiche attraversano la moda, innescando interazioni spesso disarmoniche e corrosive con la figura umana. Se l’abito continua ad essere, al di là degli aspetti funzionali, un testo attraverso cui si esprime una proiezione esistenziale o un’istanza sociale, il corpo sembra perdere di interesse o, al massimo diviene puro supporto. Proporzioni, volumi, tagli e colori sono la materia viva di quella falange di stilisti che propugnano una visione radicale e perfino psichedelica della moda. Attraverso forme disadattate sovvertono i codici vestimentari, in una violazione che, dopo Courrèges, Cardin e Paco Rabanne, non sempre corrisponde a una prospettiva realmente futuristica.
Insomma, la Decostruzione è arrivata prima nella moda che nell’architettura, alimentando un indirizzo trasgressivo, ma anche marginale, borderline, del fashion.
Quella dissacrazione comprende l’ironia dinamitarda di Moschino e di Jean Paul Gaultier, ma soprattutto le proposte effettivamente sperimentali di Rei Kawakubo, Chalayan, Gareth Pugh e tanti altri, spalmate negli ultimi quattro decenni, fino alle più recenti alchimie acide di Alessandro Michele per Gucci.
E include il lavoro di Rick Owens, californiano a Parigi, che aggancia le proprie creazioni a un immaginario di un mondo fatiscente, degradato, alternato alla ricerca di ancestralità.
Rick Owens, vista della mostra, foto di Gianluca Sgalippa
Il suo linguaggio, che nasce da una contaminazione sbalorditiva tra altri codici, esprime una visione da vero outsider che crea per gli outsider, quelli travolti da una vita tellurica, allucinata, brutale. La sua moda fa parte di un progetto totale di esistenza, in un circuito estetico coerente e ben riconoscibile, che parte da esperienze freak e underground per giungere a formulazioni progettuali scabre e perfino deformi. Rick Owens sta portando nel fashion ciò che Nacho Carbonell sta facendo nel design d’arredo. Oppure è la trasposizione dell’io-minimo delineato da Christopher Lash in sede sociologica (nato appunto nel contesto americano).
Mentre alcuni designer creano stili paralleli e “alternativi”, la poetica di Owens scava nei lati più oscuri dei percorsi umani, come la dimensione tribale, le atmosfere cimiteriali e gli istinti barbarici, narrati attraverso una materia cruda e brutale. La sua ricerca segue traiettorie regressive e oblique. Si imbatte nella Body Art di Orlan e di Franko B. – qui è utile un richiamo all’identità della sua stessa moglie, Michèle Lamy, musa e braccio destro – e vira verso il punk londinese degli anni ’70 e ‘80. Ma i suoi abiti evocano anche un’aura da monastero, perfida e scabra, dove fanciulle diafane si preparano al rito sacrificale.
Rick Owens è statunitense, esordisce in patria, ma non ha nulla a che vedere con il fashion system conformista dei suoi connazionali. Owens è un radicale, a tutti gli effetti. Ma a questo punto occorre chiarire i tratti del suo radicalismo in chiave semiotica. Dal Futurismo in poi, passando attraverso le visioni lisergiche degli anni ’60 e ’70, moda, design e architettura hanno ricercato forme che prima non c’erano, capaci di trasmettere una tensione innovativa, spesso proiettata verso il futuro. Complice la tecnologia che, materialmente o attraverso semplici suggestioni, decretava la rottura con il passato. Ma il lessico di Rick Owens è rivoluzionario senza essere progressista. Anzi, è davvero arcaicizzante. Rifiuta la classicità spingendosi ancora più indietro, rintracciando la condizione primaria dell’abito sia maschile che femminile. È radicale poiché torna alla “radice” della pratica vestimentaria, seppur su un livello aulico e solenne.
Rick Owens, vista della mostra, foto di Gianluca Sgalippa
Per la prima volta, il mondo di Rick Owens è protagonista di una mostra. La dicitura “Subhuman Inhuman Superhuman” racconta, alla Triennale di Milano, fino al 25 marzo 2018, i primi vent’anni di una moda sovversiva, s-regolata, sconfinata nell’assurdo, in bilico tra arcaico e attuale.
Il fil rouge dell’installazione – curata dallo stesso stilista – è una gigantesca nube nera che corre lungo tutto lo spazio espositivo, tra soffitto e pavimento, seguendo la conformazione curva e “cavernosa” della sala: un blob terrifico, inquietante, che simboleggia, da un lato, la materia primordiale e, dall’altro, una civiltà in metastasi.
Per Eleonora Fiorani, epistemologa e coordinatrice della sezione Moda della Triennale, questa iniziativa rappresenta una prova concreta delle profonde mutazioni e riformulazioni che il corpo ha attraversato nella postmodernità. E rintraccia, nello specifico creativo di Owens, forme «Che hanno accompagnato l’umanità dalla notte dei tempi, scardinando le strutture della tradizione e la sua idea di bello, per metterla in comunicazione con le altre arti […] in un’immaginazione visionaria aperta alle diverse direzioni. L’abito diventa uno spazio mentale parte di un universo fatto di segni, di alfabeti dissimulati, di citazioni che diventano macchina dell’immaginazione poetica».
Il corpo, per Rick Owens, non rappresenta un codice fisso e vincolante, ma una piattaforma su cui lavorare dilatando le proporzioni, amplificando i dettagli, in un conflitto (risolto) tra materia e sartorialità. Dalla sua ricerca scaturiscono volumi dinamici, in-formali. La materia sembra essere manipolata direttamente sulla persona, in un montaggio che quasi soverchia o nega la preesistenza anatomica. La sua visione della femminilità è più vicina alla pittura espressionista che non alla leziosità commerciale tipica dell’immaginario couture, mentre un uomo esangue si annulla in capi destrutturati e ricomposti in un nuovo disordine.
Gianluca Sgalippa