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26
giugno 2009
ALT! MA L’ARTE NON SI FERMA
Progetti e iniziative
Torna in pompa magna Fabio Cavallucci, dopo la defenestrazione dalla Galleria Civica di Trento. Per curare il progetto inaugurale di Alt, nel bergamasco. Una spazio che raccoglie opere provenienti da tre collezioni, che fanno capo innanzitutto a Tullio Leggeri, e pure a Elena Matous Radici e all’Accademia dei Visionari. Vi proponiamo un primo assaggio, con qualche domanda a Cavallucci. Nell’attesa del più ampio approfondimento su “Exibart.onpaper”. Dove a parlare saranno pure i collezionisti...
Inaugura sabato 27 giugno ALT – Arte Lavoro Territorio, uno spazio nel bergamasco dedicato alla collezione di Tullio Leggeri e alla memoria di Fausto Radici. All’interno dell’ex opificio di Italcementi, 3500 metri quadri a disposizione dell’arte contemporanea con tanto di servizi, bookshop, ristorante. Insomma il centro per l’arte contemporanea che Milano non riesce ad avere, apre a Bergamo! Per cominciare, Una collezione trasversale allestita da Fabio Cavallucci.
Come hai lavorato per selezionare i pezzi della collezione Leggeri per questa mostra inaugurale di Alt?
Non lo dico per piaggeria nei confronti di Tullio Leggeri, ma le opere che ha raccolto sono quasi tutte di grande qualità. Non sono mai lavori scelti a caso, solo guardando al nome. Anche nei casi di lavori piccolissimi, come l’Autoritratto di Man Ray con mezza faccia con la barba e mezza senza, o quello di Beuys con uno straccio sul volto, per quanto grandi pochi centimetri, emanano un’energia enorme. Dunque, la selezione non è stata facile, ma si può anche dire che non è quasi possibile sbagliare: le opere sono tutte belle. Semmai il problema è rimandato all’allestimento.
E infatti lo spazio, con le sue dimensioni, non sarà stato facile da affrontare…
Lo spazio è imponente e, allo stesso tempo, frammentato da volte e pilastri. La luce è uniforme, zenitale. Dunque, ha un po’ il sapore della chiesa o della moschea. Impossibile sconfiggerlo sulla base delle dimensioni: è uno spazio che assorbe, che raccoglie le opere e le uniforma. In fondo è la stessa cosa che accade in una chiesa, dove gli affreschi, i dipinti e le sculture diventano visibili nei dettagli solo quando ci si avvicina. Ecco, in questo spazio accade un po’ la stessa cosa. La collezione poi nasce come raccolta personale, domestica, e salvo alcuni casi non presenta opere enormi. Quindi la mostra si dispiega, almeno nella prima parte, come un percorso “aperto”, dove i lavori s’incontrano dietro ai pilastri, o nelle pareti di fondo, scoprendoli un po’ alla volta. Si perde il gigantismo alla Pinault, ma si guadagna in concretezza e verità dell’opera.
Hai lavorato a lungo come direttore di un museo pubblico, ora curi la mostra inaugurale di un grande spazio privato. Qualche riflessione e qualche confronto in parallelo.
Intanto osservo che, mentre le istituzioni pubbliche in questo momento in Italia annaspano, quasi per una necessità di bilanciamento avanzano i privati. Non si tratta solo di Alt, ma di tanti altri spazi e fondazioni che stanno aprendo proprio in questo momento. Sembra quasi una necessità biologica, come l’aumento del numero dei conigli quando diminuiscono le volpi e viceversa. E questo dovrebbe far pensare quanto l’arte, apparentemente così inutile, sia fondamentale per la nostra esistenza. Dal punto di vista pratico, lavorare per un collezionista non è troppo diverso che lavorare per un’istituzione, dal momento che lo spazio che si apre ha delle finalità pubbliche, e quindi presenta le stesse necessità di chiarezza e divulgazione di un’istituzione pubblica.
*E sul prossimo numero di Exibart.onpaper il resto dell’intervista a Cavallucci e un colloquio con Tullio Leggeri ed Elena Radici per sviscerare le caratteristiche e gli obbiettivi di questa grande iniziativa privata dedicata all’arte contemporanea. Abbonatevi!
Come hai lavorato per selezionare i pezzi della collezione Leggeri per questa mostra inaugurale di Alt?
Non lo dico per piaggeria nei confronti di Tullio Leggeri, ma le opere che ha raccolto sono quasi tutte di grande qualità. Non sono mai lavori scelti a caso, solo guardando al nome. Anche nei casi di lavori piccolissimi, come l’Autoritratto di Man Ray con mezza faccia con la barba e mezza senza, o quello di Beuys con uno straccio sul volto, per quanto grandi pochi centimetri, emanano un’energia enorme. Dunque, la selezione non è stata facile, ma si può anche dire che non è quasi possibile sbagliare: le opere sono tutte belle. Semmai il problema è rimandato all’allestimento.
E infatti lo spazio, con le sue dimensioni, non sarà stato facile da affrontare…
Lo spazio è imponente e, allo stesso tempo, frammentato da volte e pilastri. La luce è uniforme, zenitale. Dunque, ha un po’ il sapore della chiesa o della moschea. Impossibile sconfiggerlo sulla base delle dimensioni: è uno spazio che assorbe, che raccoglie le opere e le uniforma. In fondo è la stessa cosa che accade in una chiesa, dove gli affreschi, i dipinti e le sculture diventano visibili nei dettagli solo quando ci si avvicina. Ecco, in questo spazio accade un po’ la stessa cosa. La collezione poi nasce come raccolta personale, domestica, e salvo alcuni casi non presenta opere enormi. Quindi la mostra si dispiega, almeno nella prima parte, come un percorso “aperto”, dove i lavori s’incontrano dietro ai pilastri, o nelle pareti di fondo, scoprendoli un po’ alla volta. Si perde il gigantismo alla Pinault, ma si guadagna in concretezza e verità dell’opera.
Hai lavorato a lungo come direttore di un museo pubblico, ora curi la mostra inaugurale di un grande spazio privato. Qualche riflessione e qualche confronto in parallelo.
Intanto osservo che, mentre le istituzioni pubbliche in questo momento in Italia annaspano, quasi per una necessità di bilanciamento avanzano i privati. Non si tratta solo di Alt, ma di tanti altri spazi e fondazioni che stanno aprendo proprio in questo momento. Sembra quasi una necessità biologica, come l’aumento del numero dei conigli quando diminuiscono le volpi e viceversa. E questo dovrebbe far pensare quanto l’arte, apparentemente così inutile, sia fondamentale per la nostra esistenza. Dal punto di vista pratico, lavorare per un collezionista non è troppo diverso che lavorare per un’istituzione, dal momento che lo spazio che si apre ha delle finalità pubbliche, e quindi presenta le stesse necessità di chiarezza e divulgazione di un’istituzione pubblica.
*E sul prossimo numero di Exibart.onpaper il resto dell’intervista a Cavallucci e un colloquio con Tullio Leggeri ed Elena Radici per sviscerare le caratteristiche e gli obbiettivi di questa grande iniziativa privata dedicata all’arte contemporanea. Abbonatevi!
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a cura di m. t.
Inaugurazione sabato 27 giugno ore 17.30-20.30
Una collezione trasversale
a cura di Fabio Cavallucci
ALT – Arte Lavoro Territorio
Via Acerbis, 12 – 24022 Alzano Lombardo (BG)
Orario: sabato e domenica ore 11-19 o su appuntamento
Ingresso libero
Info: tel. +39 035294303; info@altartecontemporanea.it; www.altartecontemporanea.it
[exibart]
Vista la collezzione di leggeri e le altre la mostra l’avrebbe potuta curare un cieco. Comunque Cavalucci ha proposto una buona qualità alla civica di trento, anche lì andando sul sicuro e sul velluto. Non riesco a capire quale sia il ruolo del “curatore”. Mi sembra più un impiegato di lusso. Per curare ci deve essere qualcosa di malato, bisogna andare negli “ospedali”.
la mostra ad alt non è una mostra. è la presentazione di un amore per l’arte di Tullio Leggeri, in quel senso c’è tutta la sua biografia. era come stare in casa sua. ra lui infatti che spiegava le opere. era bello ma i curatori erano assenti e gli artisti pure. speriamo per le prossime volte che prevalgano i progetti o una vera riflessione sulle opere d’arte e sulla storia dell’arte.
non ho mai visto una presentazione così scadente di una collezione… luci assenti, didascalie altalenanti, fotografie appese alle colonne: una trattoria.
Non si vergogna un ex direttore a firmare questo allestimento?
non è colpa di cavallucci o di leggeri secondo me. loro si sono impegnati tanto ma non potevano fare tutto da soli. sono stati eroici. è anche vero che bastava prendere dei buoni collaboratori e a quel punto luci, didascalie e altro sarebbe stato tutto perfetto. però forse per l’inaugurazione ancora non avevano maturato che è uno spazio pubblico a tutti gli effetti e che quindi il rapporto con lo spettatore è diverso da una situazione tra “amici”.