Entrando nelle due stanze che ospitano “Ritratto di donne. Alessandra Ariatti | Legami. Chantal Joffe | Moll” nell’ex stabilimento di moda Max Mara a Reggio Emilia, in mostra fino al 12 aprile 2015, la sensazione che si ha non è quella di guardare delle opere d’arte, ma quella di incontrare delle persone.
Siamo subito catapultati in due diverse atmosfere una immersiva, l’altra repulsiva.
Nella stanza di Chantal Joffe (1969, Vermont, Stati Uniti), l’aria si carica di ostilità. Ostilità che emerge dai ritratti della nipote dell’artista oramai sedicenne, Moll, da cui prende il nome il gruppo di opere esposte, costretta a posare fin da piccola per i soggetti pittorici della zia. Nelle quattro opere esposte, Moll è raffigurata a tutto campo in posizioni di assoluta naturalezza; sopra un sofà, accanto al suo micio, su un tronco di un albero. Ma c’è qualcosa in lei che desta un impercettibile turbamento: il suo sguardo.
È quello che Sigmud Freud chiamerebbe Unheimlich, qualcosa che dovrebbe essere familiare, innocuo, tenuto nascosto e che invece affiora e trapela suscitando in chi lo prova un senso di sgomento perturbante. Questa ambivalenza è ben rappresentata dalla figura adolescenziale di Moll in cui la sessualità femminile crea un misto di desiderio e timore al tempo stesso, caratterizzata da continui slittamenti identitari. Il fattore ripetizione amplifica questa forma di coazione in cui lo spettatore si sente profondamente a disagio pur essendone contemporaneamente attratto.
D’obbligo il parallellismo con Lucian Freud, Alice Neel e Francis Bacon alle cui opere è spesso paragonata la sua produzione artistica. Ma non solo. I ritratti di Chantal Joffe richiamano le pose suadenti e ammiccanti di Ernst Kirchner e il primitivismo Matissiano i cui nudi certo non potevano distogliere l’attenzione dal loro significato sessuale.
Ribaltamento percettivo si ha nella stanza di Alessandra Ariatti (1969, Reggio Emilia) in cui si è subito avvolti da un’atmosfera calda e familiare. Le sue opere creano empatia e i suoi personaggi entrano subito in contatto con lo spettatore instaurando quei Legami che è proprio il titolo del suo nucleo di lavori.
La precisione fotografica della sua pittura è ricca di suggestioni e richiami all’Iperrealismo americano, ma ciò che colpisce non è tanto la tecnica, quanto la carica emotiva delle sue immagini. Ogni ritratto ha una sua vita e ogni nucleo familiare rappresentato, appartenente alla propria cerchia affettiva, racchiude in sé una storia che funge da modello etico e sociale. Attraverso delle forme di comunicazione non verbale si creano non solo delle relazioni fra i personaggi ritratti, ma anche fra i personaggi e lo spettatore che è immerso nella forza persuasiva dei loro sguardi.
Il suo metodo ricorda quello di Henri Cartier-Bresson sempre alla ricerca dell'”istante decisivo”. Così come Cartier-Bresson aspetta che il minimo e apparentemente insignificante cambiamento del volto faccia trapelare l’anima del soggetto fotografato, così Alessandra Ariatti cerca di catturare l’aura delle persone che la circondano come fosse “una proiezione di se stessa”.
Prima di dipingere i suoi soggetti Alessandra Ariatti scatta una sessantina di fotografie a testimonianza di come il processo di creazione sia molto lento e faticoso. La sua pittura ben si adatta alla sua persona, molto riflessiva e introversa in cui ogni pennellata è il risultato di una stratificazione non solo di colori, ma anche di emozioni.
Mentre Chantal Joffe ha impiegato circa cinque mesi per dipingere i quattro ritratti della nipote Moll, Alessandra Ariatti ha investito quattro interi anni del suo lavoro per ritrarre i tre nuclei familiari presentati in Legami.
Lo stile aggressivo di Chantal Joffe è, al contrario, immediato e selvaggio. Proprio per le sue pennellate sciatte, indefinite e colanti è stata spesso associata alla Bad Painting. Lontana dall’essere una “bad girl” Chantal Joffe, questa artista timida e goffa del milieu londinese e Alessandra Ariatti, che ha scelto di ritirarsi nella campagna emiliana, riflettono sullo stesso concetto: cosa vuol dire essere donna oggi.
Lo abbiamo chiesto direttamente a loro nello scenario suggestivo della biblioteca della Collezione Maramotti. Entrambe, pur sviluppando linguaggi espressivi diversi, hanno una visione molto simile del ruolo della donna: una donna cosciente di tutti i suoi ruoli, che deve sopperire alle pressioni psicologiche e a un carico emotivo maggiore rispetto al passato in cui il suo unico ruolo era quello di accudire la propria famiglia. Oggi, in un mondo in cui le donne “non sognano di diventare veline, ma amministratori delegati” per citare un articolo di Emma Kay, la donna non è più il sesso debole.
E queste artiste ci mostrano come si può essere al tempo stesso madri e mogli. Donne, insomma secondo l’accezione tradizionale, ma anche artiste. Senza rinunciare alla dimensione affettiva.