Ammaliante Youth |

di - 21 Maggio 2015
Il profilo di una ragazza dai vistosi orecchini che canta una canzone con voce melanconica emerge dall’oscurità delle valli svizzere, silenzioso palcoscenico di Youth, l’ultimo film di Paolo Sorrentino. Poi, come flash sospesi tra memoria, ricordo e presente compaiono i volti dei due protagonisti principali, il compositore Fred Ballinger (uno straordinario Michel Caine) e il suo amico Mick Boyle, indomito regista ottantenne che sta terminando un film (l’altrettanto stupefacente Harvey Keitel).
Seduti su due sdraio al bordo di una piscina termale del lussuoso albergo con annessa spa di Davos, si scambiano frasi sul senso della vita, e soprattutto su come affrontare la  vecchiaia. Mentre parla con Mick, Fred stropiccia con due dita la carta di una caramella, e di colpo parte una sequenza di immagini a raffica, una più perfetta dell’altra. E da qui comincia un capolavoro che va molto al di là del cast di star internazionali, dell’eleganza di ogni singola inquadratura, di una colonna sonora memorabile, di una sceneggiatura precisa e puntuale come mai nei film di Sorrentino. Una trama intessuta di meraviglie come un tappeto volante che si alza nel firmamento del cinema, raggiungendo altezze frequentate assai di rado dagli attuali registi di casa nostra, troppo preoccupati di compiacere le becere leggi del botteghino tricolore per rischiare di andare verso una riflessione sulla natura del cinema oggi.
Altitudini dove Youth incrocia L’Imbalsamatore di Garrone, Birdman e Babel di Ignarritu, Parla con lei di Almodovar: registi che a loro modo hanno saputo trasformare un film in un’esperienza, sia emotiva che intellettuale. Rispetto a Birdman, un film che riflette sul rapporto tra finzione e verità dentro il linguaggio del cinema tradizionale, Youth si pone come un affondo sul rapporto tra immagine, parola, musica e senso, in un intreccio stretto e compatto che ricorda l’ordito di un raro tappeto persiano, dove ogni piccolissimo nodo è indispensabile alla trama dell’opera.
Sapiente, lucido, consapevole, libero dai cliché e dalle citazioni felliniane eccessive e strabordanti nella Grande Bellezza, tra personaggi soli sospesi tra acque termali e pinete ombrose (che sembrano usciti dalle pagine di I Beati anni del castigo, primo romanzo di Fleur Jaeggy) Sorrentino spicca il volo e ci immerge in un orizzonte visionario sfaccettato come un diamante, per puntare il dito sulla crudeltà del nostro tempo attraverso sottili affondi agrodolci, alternati a momenti di cinema sublime.Tra tutti il dialogo tra Harvey Keitel e Jane Fonda nei panni di Brenda Morel, la diva sul viale del tramonto che annuncia al regista di non voler interpretare la parte nel suo film, spingendolo al suicidio.
Tanti gli spunti, tante le suggestioni, a partire dalla riflessione sul corpo: florido e levigato quello di miss Universo che entra nuda e perfetta nella vasca termale, sotto gli occhi incantati di Fred e Mick (ricordate Susanna e i vecchioni?), simile al corpo di plastica di Pamela Faith, la pop singer che il figlio di Mick preferisce alla debole e insicura figlia di Fred, oppressa dalla personalità anaffettiva del padre, perché “è brava a letto”. I due, Fred e Mick, appaiono di primo acchito opposti ma complementari: Fred distante e controllato, tanto da essere definito “apatico”, mentre Mick impulsivo, entusiasta e passionale, quindi più adatto al mondo contemporaneo, dominato da quella “leggerezza” che Fred definisce, in uno dei dialoghi più intensi del film, una grande tentazione alla quale, per l’intera pellicola, cerca di sfuggire. Perché? La ragione viene svelata solo alla fine, in un pellegrinaggio a Venezia per deporre dei fiori sulla tomba di Stravinski, conosciuto e frequentato in gioventù. Ma non solo: il segreto di Fred è un altro, e spiega le ragioni della sua apparente “apatia” come una difesa nei confronti di un dramma antico e terribile, che orchestra e genera una chiusura del film intensa e magnifica compiuta nell’accettare finalmente le richieste del mondo contemporaneo, dove gli attori sono protagonisti di film importanti ma vengono ricordati solo per aver interpretato robot giapponesi, più riconoscibili e dunque “mediatici” (come avveniva anche per in Birdman).
Insomma, Youth è una festa per l’occhio, l’orecchio e la mente, e soprattutto spicca per la consapevolezza di quella cultura visiva contemporanea che quasi sempre manca ai nostri registi migliori, che girano le loro pellicole come se fossimo ancora negli anni Settanta. Qui, tra i prati, le piscine, le montagne e le solitudini contemporanee, giustamente sottolineate da Natalia Aspesi su Repubblica, vince la complessità, un pozzo senza fondo (pieno di calda e piacevole acqua termale?) dove Sorrentino ci invita ad immergerci per farci mille domande sullo strano tempo che ci tocca vivere. Non 10, ma 110 e lode!

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