Andy, l’idolo che inventò gli idoli

di - 11 Dicembre 2013
Nel 1936 Walter Benjamin nel saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica aveva già anticipato l’irrilevanza, ormai vecchia, della distinzione tra originale e copia in un mondo in cui il cinema e la fotografia avevano messo in discussione l’idea di autenticità. Il colpo di grazia arriva negli anni’60 quando in America, con l’avvento della prospera società dei consumi, la pubblicità diventa il nuovo linguaggio specchio dell’epoca e l’opera d’arte un prodotto commerciale.
La serigrafia, un processo di stampa seriale utilizzato per stampare disegni su felpe e magliette che democratizza l’arte, sta a Andy Warhol (1928-1987), come la Pop Art all’iconizzazione di prodotti commerciali e personaggi dello star system. Probabilmente aveva ragione Jean Baudrillard, è imbarazzante parlare ancora di Warhol perché in fondo non c’è più niente da dire, avendo già visto tutto. E lui stesso ha detto tutto nelle numerose interviste rilasciate e nel suo diario senza retorica, ironia o dietrologia e commenti. Però state attenti, non fatevi ingannare dalle sue irresistibili Marylin, così seducenti, allegre, immediate, perché moltiplicando il suo volto, Warhol ha annientato l’identità della star americana, scomparsa tragicamente nel 1962, diventata prima mito e poi culto.
Ce ne sono talmente tante di Marylin, con lineamenti stilizzati nello stencil di un’icona, che non ci fanno più effetto. Centinaia di serigrafie dai colori saturi in cui la persona scompare sotto il personaggio mediatico, volti–maschere di vacuità che mettono tristezza perché non incarnano più un sogno, ma aprono a riflessioni sulla sparizione dell’identità, prima nella società dei consumi che promette successo a tutti, e oggi nell’effimera celebrità dei reality show e dei nuovi media.
A Palazzo Reale a Milano per la prima volta (fino al 9 marzo), 160 opere tra foto, disegni, dipinti, installazioni di Andy Warhol (all’anagrafe Andrew Warhola) di proprietà della collezione di Peter Brant, nato nel 1947, che costituiscono una delle più interessanti mostre in circolazione, del padre del movimento artistico d’avanguardia griffato made in Usa, diventato un “classico” nel XXI secolo.
All’ingresso della mostra va in loop il disco d’esordio dei Velvet Underground, la band di Lou Reed di cui Warhol ha disegnato per la copertina la banana più famosa del mondo senza il bollino blu.

L’ultima volta che la pop-star venne a Milano, fu nel 1987, in occasione della sua mostra personale, a presentare una riproduzione del Cenacolo di Leonardo, ridotta in un tratto nero essenziale, su una tela bianca da 3 metri per 10, inaugurata venti giorni prima della sua scomparsa. La mostra “Warhol” ospitata al primo piano di Palazzo Reale a cura di Peter Brant, a cui ha collaborato Francesco Bonami, si apre con una sala indimenticabile dedicata alle opere degli anni ’50, quando l’artista trasferitosi a New York si manteneva facendo l’illustratore pubblicitario, rivelatrici del suo talento. Seguono altre sale mozzafiato con opere “commerciali ”degli anni’60 e ‘70 , il percorso espositivo si chiude con Last Supper (1986), dedicata a Leonardo da Vinci, che rappresenta una scena famigliare di ordinaria quotidianità.
Prodotta dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano, insieme con Palazzo Reale, 24 ORE Cultura-Gruppo 24 Ore e Arthemisia Group, questa mostra antologica racconta 30 anni di camaleontica attività di Warhol attraverso la collezione di Peter Brant, appassionato mecenate d’arte che nel’67, prima di incontrare l’artista, ha acquistato il disegno di lattine di minestra Campbell per 8mila dollari e poi altre importanti opere, custodite nell’omonima fondazione.

Di Warhol, all’inizio guardato con sospetto anche da Leo Castelli, gallerista-mercante che ha esportato in Europa il movimento Pop, nel 1988 Jannis Kounellis dichiarò: «È un idiota senza talento, è un pubblicista e non un artista». Evidentemente parlava l’invidia, perché Warhol, candidamente ingenuo, ha cercato nella superficie e nel segno grafico, creando un nuovo alfabeto visivo improntato alla semplicità e l’universalità  delle cose. Come tutti gli innovatori è stato un visionario, sperimentatore di nuovi linguaggi, che ha introdotto la fotoserigrafia nell’arte, e con essa la serialità meccanica della stessa immagine, ma anche fototessere, video, cinema, musica e fondò una rivista Interview (1969) dedicata alle star. Dietro la sua disarmante superficialità c’è il volto della nostra società ossessionata dalla comunicazione e dalla celebrità, come testimonia anche il film Reality di Matteo Garrone (2012).

Warhol, sempre con una parrucca bianca a causa di una precoce calvizie e occhiali neri spessi, diventa personaggio e spazza via il mito di Pollock e il gruppo degli “irascibili”, gli Espressionisti Astratti (sempre in mostra a Palazzo Reale) che hanno dominato la scena americana dagli anni Cinquanta. Costoro incarnavano il mito dell’artista maledetto, introverso, in preda a dubbi e inquietudini esistenziali, Warhol libera l’arte dall’interiorità a favore dell’esteriorità.
La Pop Art è popolare per le immagini riconoscibili di una realtà condivisibile. In mostra di nuovo troverete molte illustrazioni pubblicitarie di una delicatezza e ingenuità sorprendente, bozzetti di scarpe pubblicati sul “New York Times”, che gli valsero il riconoscimento del “Thirty Fifth Annual Art Director’s Club Award”, un ritratto a penna a sfera di James Dean e altre opere poco conosciute, e naturalmente tutto ciò che vi aspettate di vedere di Warhol: Marylin, Liz Taylor, Jackie, i Disastri, esposti nella galleria Sonnabend di Parigi, le sedie elettriche, i Flowers, presentati nella galleria Castelli, i Dollar Bills, le Campbell’s e le sculture Brillo Boxes, Monnalisa, Elvis riprodotti in serie (anni Sessanta), i Mao Zedong, Ladies and Gentlemen, gli Skulls, gli Oxidation Paintings, i Dollar Signs (anni Settanta) e i Basquiat, i Camouflages, in cui sovrappone alle immagini pattern mimetico militare (anni Ottanta), autoritratti formato tessera. Chiude il percorso espositivo Last Supper e un autoritratto rosso su nero istrionico e inquietante di Andy, del ’86.

La mostra merita una visita, primo per conoscere una collezione unica al mondo, secondo per scoprire una profondità nelle superficiali opere di Warhol, pittore freddo, seriale, meccanico che arrivò a produrre 100 opere all’anno.
Non perdetevi “Shot Light Blue Marylin” del 64, che rappresenta la Monroe con un buco in mezzo alla fronte, provocato da un proiettile sparato da Doroty Podber, amica di Warhol che osservando nella Factory quattro dipinti della star chiese: «Can I shoot them?». Warhol annui, e la fotografa sparò all’icona. In  inglese to shoot significa fotografare e sparare, all’artista del buco piacque l’effetto estetico e riprodusse l’immagine. Nella sezione dedicata ai ritratti polaroid scattati tra gli anni ’70 e ’80 di personaggi famosi di ogni genere, di casa nella Factory e nello Studio 54 di New York, una sorta di facebook delle celebrità, tra questi Mick Jagger, Jimmy Carter, Joan Collins, Rudolf  Nureyev, Diana Vreeland, Leo Castelli, Yves Saint–Laurent, Liza Minelli, Truman Capote, autoritratti dell’artista con parrucca da donna, Sylvester Stallone e tanti altri vip, all’epoca giovanissimi, compreso Peter Brant.
I famosi quindici minuti di celebrità di cui  tutti prima o poi beneficeremo, sono una profezia della nostra epoca della riproducibilità web, e le opere di un idolo che ha creato idoli anticipano l’estetica superficiale del nostro tempo in cui non conta l’oggetto, ma il desiderio dell’immagine dell’oggetto, aprendo la strada a una visione dell’arte democratica e commerciale in cui la quotidianità, la banalità della vita e della morte è vista come un grande film dove tutto e tutti sono protagonisti.        

Jacqueline Ceresoli (1965) storica e critica dell’arte con specializzazione in Archeologia Industriale. Docente universitaria, curatrice di mostre indipendente.

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