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Apre a Milano Palazzo Citterio, inaugurando la Grande Brera. Intervista al direttore Angelo Crespi
Progetti e iniziative
Risale al 1972 l’acquisizione da parte dello Stato italiano di Palazzo Citterio, in via Brera 12, a Milano, per mano dell’allora direttore Franco Russoli. Dopo un lungo tempo di sospensione, l’ampliamento di Brera diventa ora reale, aprendo le porte alla città una nuova sede in cui le collezioni di fine Ottocento e Novecento – collezione Jesi e collezione Vitali, prima in un’ala – trovano nuova vita nelle sale del piano nobile, attraverso lavori di riqualificazione e riallestimento firmati da Mario Cucinella. L’apertura di Palazzo Citterio alla città di Milano comporta quindi un prosieguo del racconto della lunga storia dell’identità braidense e delle sue molteplici anime, legate alle arti, ma anche alla formazione, alla scienza, all’innovazione. Oltre alla collezione permanente, però, si aprono nella nuova sede anche due mostre temporanee collegate al grande progetto di riapertura: da una parte La Grande Brera. Una comunità di arti e scienze, a cura di Luca Molinari, una narrazione inedita di Brera dal Duecento a oggi come laboratorio urbano, comunitario, trasversale e intellettuale; dall’altra Mario Ceroli come protagonista di una retrospettiva, curata da Cesare Biasini Selvaggi, collocata negli spazi ipogei progettati alla fine degli anni ’80 da James Stirling. La data di apertura al pubblico è ufficialmente fissata per domenica, 8 dicembre 2024.
Un fattore trainante nel presentare l’apertura della Grande Brera è stato quello di riunire a sé non solo le arti, ma anche le scienze e i saperi. In cosa consiste l’unicità di questo luogo?
«Credo che la scienza sia un cardine su cui si è sempre mossa Brera nella sua storia. Lo si vede dall’Osservatorio Astronomico Schiaparelli, ma anche nell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere. Il tema scientifico è ricorrente, seguito dalla tecnologia e quindi dall’innovazione. Raccogliendo un progetto comune, quello dell’Istituto lombardo, abbiamo pensato di riportare al centro del nostro lavoro la scienza con un laboratorio di diagnostica dei beni culturali che sarà al servizio del nostro istituto e anche degli altri musei milanesi, dando maggiore rilevanza all’aspetto della conservazione».
Quali passi avanti ha fatto la tecnologia in questo ambito? Come può supportare la conservazione di opere antiche?
«Oggi si può fare una diagnostica sulle tele antiche senza prelevare i materiali del quadro. Basta una pistola laser per scoprire immediatamente qual è lo stato di conservazione. Questo dà delle possibilità infinite. Attraverso l’imaging sono state sviluppate altre tecnologie che permettono di scoprire cosa si celi sotto la tela. Lo abbiamo usato per la Pala di Genga (Disputa dei Dottori della Chiesa di Girolamo Genga, 1516-1518, ndr) attualmente esposta, scoprendo, senza andare a toccare l’opera, che l’autore aveva preparato l’intero disegno sottostante con la tecnica dello spolvero».
In effetti la parte scientifica è sempre stata insita all’interno di Brera, basti pensare al laboratorio di restauro a vetri che si trova nel percorso della Pinacoteca, disegnato da Ettore Sottsass…
«Esatto, siamo l’unico museo al mondo ad avere il laboratorio di restauro a vista all’interno del percorso. I nostri restauratori due volte al mese incontrano il pubblico. Tutto quello che noi comunichiamo è un lavoro di conservazione; ma la particolarità è che alla base c’è il valore fondante della nostra civiltà del “prendersi cura delle cose”. Quello che dobbiamo far capire è che il museo è un contenitore di identità in un paese che manca molte volte di identità. Che però la ritrova nei beni culturali, nel suo patrimonio».
Torniamo a Palazzo Citterio. Cosa cambia oggi rispetto all’idea originaria di Franco Russoli?
«L’idea di Russoli della Grande Brera fu quello di comprare Palazzo Citterio, ampliare la parte espositiva della Pinacoteca pensando di innestare l’arte allora contemporanea. Ciò che oggi si aggiunge rispetto al progetto originario è che la Grande Brera non ha solo una funzione di esposizione, ma anche di conservazione. Insieme a noi e alla Biblioteca c’è l’Accademia, che da 200 anni forma i migliori artisti, ma anche l’Istituto Lombardo, l’Archivio Ricordi, la Società Storica Lombarda, l’Osservatorio, l’Orto Botanico e ora anche il Cenacolo di Leonardo: insieme tutte queste diverse realtà danno vita a un polo museale di stato che a Milano porta ogni anno un milione di visitatori e 11 milioni di ricavo. In Italia abbiamo dei poli museali che possono essere confrontati con i più grandi musei del mondo ed essere considerati alla pari».
Il Cenacolo vinciano è entrato infatti sotto la direzione di Brera: cosa cambia? Intendo, questo comporterà un cambiamento di strategia nella gestione museale?
«Il Cenacolo è già oggi uno dei monumenti più noti al mondo. Però qualcosa si può ancora fare in termini di conservazione, proteggendo questo bene che è un’icona ma anche un fantasma, perché già Vasari quando lo vide a metà del Cinquecento parlò di “macchia abbagliata”, un dipinto che è come se non fosse stato nemmeno dipinto da mano umana: è partito da Leonardo da Vinci ma poi ha subito interventi a posteriori, a causa del suo fragilissimo stato di conservazione rivelatori tale già dall’epoca del suo autore. Eppure questo luogo continua a incantare gli artisti di ogni epoca, basti pensare a Andy Warhol che lo vide negli anni Ottanta. Per il Cenacolo Vinciano bisogna immaginare di migliorare l’approccio della visita, dotare il pubblico di strumenti didattici per far sì che quella visita – che molte persone compiono solo una volta nella vita – diventi la cosa più emozionante del mondo».
Mentre vediamo la Collezione Jesi e Collezione Vitali spostarsi e ricollocarsi a Palazzo Citterio, le alee dove prima erano collocate all’interno della Pinacoteca di Brera si svuotano. Cosa succederà in quello spazio?
«Le sale napoleoniche che accoglievano le collezioni erano occupate da vetrine oggettivamente brutte ma che hanno permesso di conservare e tenere assieme queste opere. Quegli spazi potranno ospitare ora piccole mostre temporanee. Ne stiamo già pensando una per il 2026 di arte antica».
A Palazzo Citterio, invece, la Fiumana di Pelizza da Volpedo diventa in senso metaforico il manifesto di questa grande apertura, perché? Da quanto tempo mancava dalle scene?
«L’opera è rimasta nei depositi quasi 10 anni. Una volta era l’ultimo quadro della sala dell’Ottocento ma in fase di riallestimento si è deciso di arrivare al 1861, con Hayez. La Fiumana riprende quindi da dove ci si era interrotti. Abbiamo avuto dai depositi un quadro straordinario di Previati, La Maternità. Il percorso si apre quindi con l’ultima parte dell’Ottocento, preludio e anticamera della storia del Novecento, con il Futurismo di Boccioni e poi la metafisica di Morandi. Ma l’idea è anche che rimanga anche un’attinenza con la storia di questo edificio, una dimora milanese affrescata di metà Novecento, con un allestimento molto calibrato di Mario Cucinella. Già Jesi abitava a Palazzo Citterio, la collezione rappresenta quindi una sorta d ritorno a casa: un museo che dà un senso di domestico».
Palazzo Citterio: le immagini dei nuovi spazi