ARTISTI ALL’OPERA

di - 16 Marzo 2007

Dopo i successi di William Kentridge al Teatro San Carlo di Napoli, con un allestimento fantastico del mozartiano Flauto Magico, un altro artista va in scena, in questa stagione, con “opere” che trovano sul palcoscenico una rinnovata dimensione cultuale. Non è un caso, ma il segno di tempi in cui l’opera lirica occhieggia al mondo dell’arte, producendo ricadute positive, facendo sistema.
Per Mimmo Paladino si tratta dell’ennesima esperienza rivolta al palcoscenico, come dimostra il libro Mimmo Paladino in scena, curato da Claudio Spadoni e pubblicato dal Museo di Ravenna (Silvana Editoriale). Nel 2005 l’artista è stato addirittura il factotum di un film dedicato alla figura di Don Chisciotte, Quijote, che ha coinvolto tra gli altri Lucio Dalla, Alessandro Bergonzoni, Enzo Cucchi e Peppe Servillo, in un percorso in cui il progetto di “opera totale” caro a Richard Wagner viene assunto da un artista visivo.
Avvolte negli acuti, i rubati, i duetti sospiranti e i “do di petto” dei rapimenti estetici composti da Igor Stravinskij nel 1927 e da Pietro Mascagni nel 1884, le scene disegnate da Paladino per l’Œdipus Rex e per Cavalleria Rusticana si stagliano dentro il Teatro Regio di Torino come presenze monumentali giunte da una lontana zona di confine. Una produzione di rara intelligenza, quella del Regio, volta a coniugare, dentro una drammatizzazione moderna di liturgie arcaiche, l’avanguardia europea rappresentata dalla coppia Stravinskij – Cocteau, tornati alla pace dopo lo scorno rappresentato dal manifesto dell’avanguardia musicale francese del primo dopoguerra Le Coq et l’Arlequin, con il verismo e il canto del desiderio disperato con cui Mascagni porta in scena la novella di Giovanni Verga e la trasforma in uno spaccato della cultura e del sentire siciliani.
Nello spazio immenso del palcoscenico d’opera, separato dalla fossa dell’orchestra che come un Lete funge da limite estremo dietro il quale ha inizio lo spazio plutonico dei fantasmi dell’arte, la scenografia disegnata da Paladino lega l’ “Opera-oratorio” del compositore russo e il “Melodramma in un atto” dell’italiano in un percorso ricco di suggestioni, di ponti lanciati sulla Storia, dove la Grecia arcaica del mito incontra la sua propaggine estrema nella Sicilia pasquale e liturgica, intessuta di amore e di morte, di riti e di carnali passioni. Forse perfino di “sacrifici” umani.

Una Sicilia erede della Magna Grecia. In queste atmosfere, diversamente espresse dalla musica, le scene pensate da Paladino diventano una struttura dimensionale. Non sono soltanto luogo dell’azione scenica (secondo un modo corrivo modo d’intendere la scenografia) ma luogo dove la finzione si fa reale, rendendo emotivo l’atto interpretativo. In questo arcano spazio, dove la storia diventa anche carnevale, maschera e luce, la parola si fa canto e tutto assume le fattezze di un mondo realmente favoloso dove l’arte giunge indisturbata ad integrarsi, grazie alle complicità di tutte le discipline ed alle aspettative di “viaggio” del pubblico.
L’opera è il nostro teatro Kabuki, il codice che porta su di sé il peso di una tradizione, ma anche un panorama di emozioni e storie archetipiche. A differenza del Kabuki, però, le scene e la regia cangianti dell’opera lirica sono motivo d’interpretazione e di nuove accezioni di senso. In questo discorso rientra anche l’arte applicata della scenografia. “L’arte in generale non esiste” sentenzia Rudi Fuchs, già direttore del Museo del Castello di Rivoli, nel libretto edito dal Teatro Regio dove presenta l’opera di Paladino. L’arte ha sempre qualcosa di personale e di specifico. Nel caso dell’arte in scena, la specificità consiste nella trasformazione dell’opera disegnata e progettata per una commissione molto specifica, come quella di “accogliere” una storia, una composizione, una coreografia e nello stesso tempo mantenere una forte aspirazione ad essere scultura e monumento, installazione ed architettura. In questo crocevia di dimensioni si tende la “scena” che vive di luce e di musica. Per l’Œdipus Rex di Sofocle, cantato in latino, la parabola della disfatta della Ragione, rappresentata da un Edipo che conquista il trono risolvendo gli enigmi della Sfinge e finisce nella trappola degli dei crudeli, Paladino progetta un gigantesco muro di macerie ordinate e numerate, ma ostili, ritorte e grigie. Sopra svettano, come un Partenone postindustriale, le grandi ossa di un capannone (metaforico riferimento alle vicissitudini industriali della città?) che rappresentano la Tebe infestata dalla peste.
La scena pensata da Paladino ha la forza di un altare, il peso di una reggia e la disperazione della tragedia greca. Il morbo incombe sui Greci che invocano Edipo di liberarli, ma l’ultimo responso della Sfinge gli svela di essere l’assassino del proprio padre, Laio, e il concubino della propria madre Giocasta, suicida per orrore. Edipo allora si acceca, rifiuta l’organo razionale della vista, e si abbandona ad un vagare folle e disperato. Questa figura freudiana per eccellenza rappresenta anche l’impotenza della Ragione di fronte alle catastrofi della Storia, come sembra suggerire il luogo creato da Paladino per accogliere questo mito dai simboli forti e asciutti, dai molteplici significati e fortemente arcaico, perfettamente in linea con la poetica dell’artista.
A quest’opera segue il verismo verghiano della Cavalleria Rusticana: un’ora di teatro musicale tra i più belli. Qui Paladino, fiancheggiato da riprese video di Ferdinando Scianna e ritratti fotografici sospesi tra il neorealismo di Pier Paolo Pasolini ed il cinismo di Ciprì e Maresco, sceglie di porre in centro alla piazza che accoglie i destini di Turiddu e compari, un oggetto gigantesco che assume su di sé un tono totemico. Un oggetto etno-pop come la “coppola”, il berretto siciliano, diventa una presenza lunare, luparesca attorno alla quale ruotano i “pupi” della novella: la passione sregolata di Turiddu, il dolore di Santuzza, l’evanescenza di Lola e la compostezza di compare Alfio.

La processione della Santa Pasqua, rito di morte e di resurrezione, è l’occasione per far ruotare la coppola, fino ad allora monolitica ed oscura presenza dentro la società, e svelarne l’interno in forma di catacomba piena di grandi teschi. La Sicilia di Paladino si riassume in questi simboli, compresi tra la religione cristiana, il rito ancestrale ed un antico senso del tragico. La vita dei campi e le processioni delle confraternite di flagellanti si alternano sul video che fa da sfondo con una Sicilia più astratta, fatta di cieli nembosi e di lune offuscate dai fumi dell’Etna. Davanti a tutto ciò, la coppola totemica di Paladino è una presenza lunare che scompagina il realismo della scena, fatta di sedie impagliate e rarefatti elementi narrativi. Basta questa monumentale scultura dall’archetipica forma di uovo rovesciato, in magico equilibrio sulla terra di Sicilia, per calare il pubblico nelle inquietudini e nelle regole di una società vicina e lontana. L’opera assume così la “tonalità emotiva” di un dramma antropologicamente fondativo e la musica si lega stranamente alla vita di questo semplicissimo solido piantato in mezzo alla scena come un presagio portatore di una coscienza collettiva. L’arte di Paladino non “mette in scena”, ma la sconvolge con una poetica del simbolo che dimostra di avere ancora molto da dire.

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