Barocco sì, barocco no? Quando inizia davvero? Peste del gusto e stravaganza o piuttosto regola? «Sono prima Longhi e poi Dehon nel ‘900 a rimetterlo al mondo, ma ci si accapiglia ancora sul Barocco». Lo sostiene Marco Bussagli, curatore insieme a Maria Grazia Bernardini della mostra “Barocco a Roma. La Meraviglia delle Arti” a Palazzo Cipolla fino al 26 luglio. E per l’occasione salta fuori un vecchio “avviso” del 2 giugno 1601: “Finalmente la pittura a Roma rifiorisce insieme a Caravaggio e ai Carracci” che riapre la questione. Si spinge quindi più indietro la data di nascita del Barocco, ma non è l’unica ipotesi avanzata dall’ennesima mostra sul tema: da quanto risulta dai documenti, anche la città con le due torri e i Carracci hanno un certo peso.
L’iniziativa promossa dalla Fondazione Roma non è una semplice esposizione di opere, ma un concerto polifonico di eventi, un lavoro articolato per tutti i luoghi di Roma e dintorni toccati dall’impronta di questo gusto, che si è conclusa a giugno con la girandola di Castel Sant’Angelo.
La chiamata a raccolta riguarda stavolta circa 50 artisti e 200 opere, riunisce sia capolavori scultorei, che dipinti a olio, disegni e sanguigne (particolari matite usate per disegnare) nonché progettazioni di chiese o di monumenti architettonici, oggetti d’arredo, bozzetti e persino strumenti musicali, come l’arpa Barberini. Si va, quindi, dal cucchiaio alla città, il che rivela come il Barocco sia stato un linguaggio artistico molto pervasivo. E se è vero che nasce con Bernini a casa Borghese, l’operazione espositiva ha confermato che Roma ha un precedente: Bologna. È il 1582 e il cardinal Paleotti detta regole di là dalle mura vaticane: prima di tutto, l’arte ha finalità di “Movere” e solo dopo “Docere”. Dallo strappo luterano la Chiesa Cattolica deve riprendere a lottare per vincere contro le eresie che minacciano il suo primato, perciò è proprio all’arte che si assegna il ruolo di convertire le masse. E le arti tutte rimontano per contrapporre le altre fedi. Per sconfiggere Lutero e altri rivali, scendono in campo tutti: non solo pittori e artisti, devoti o meno, ma anche i vecchi strumenti della retorica, della propaganda e della persuasione. Parole d’ordine ormai dello spirito barocco.
E allora è proprio con i Carracci (della Galleria Farnese) insieme a Caravaggio (della Cappella Cerasi) che inizia quel lungo strabiliante proliferare di meraviglia delle arti, che vede segnare un nuovo corso con Bernini.
Ma accanto ai grandi cosa succede a Roma? Oltre a Vignon (c’è in mostra la sua Salomè) e Romanelli, Domenichino, un olio su tela di Gimignani (da collezione privata) ci sono artisti come Turchi e Vouet (di quest’ultimo un sognante San Sebastiano con le pie donne del 1622) sulla linea di Caravaggio; Borromini come libero battitore e pure Sacchi nonché Algardi e Susini (con Nettuno) per la scultura e gli stranieri Reuter (Festa all’Ambasciata di Spagna) Poussin, Rubens e Dusquenoy senza dimenticare poi, che ad avere un ruolo sul cambiamento di passo ci sono scienziati e nuove idee, sperimentatori e ribelli.
Il ‘600, secolo contraddittorio, infatti sta a metà tra misticismo e scoperte scientifiche, tra personaggi devoti come Guido Reni o Pietro da Cortona e rivoluzionari come Galileo. Un secolo che, se inizia il 17 febbraio 1600 col rogo di Giordano Bruno, non può che finire se non con la morte di Bernini tra le braccia della donna che ripudia la fede cattolica e il trono. Un secolo in cui si vedono, tra l’altro grandi revival, Raffaello su tutti; e grandi innovazioni: il rapporto che adesso l’opera instaura con lo spazio circostante. Non per nulla, ma anche Bernini, e non solo Caravaggio, sfonda soffitti e pareti, e a Santa Maria della Vittoria (visibile solo da fuori) squarcia un muro per aprire una finestrella. La stessa che servirà per la linea di luce che trafigge il cuore di Santa Teresa. Ma lo spazio è anche immaginato, come per il Davide di Bernini della Borghese, dove insieme a un papa che regge lo specchio, si deve pensare al Golia colpito dalla fionda.
Scultura che sfonda ma anche arte sacra, fatta di sentimenti devozionali che insieme al trionfalismo caratterizzano capolavori inamovibili come Santa Cecilia di Maderno, i pellegrini che pregano di Caravaggio della Madonna di Loreto e la Pietà di Annibale Carracci (quest’ultima da Capodimonte). Tutte opere destinate a convincere i fedeli e dove per la prima volta il rapporto con la divinità è del tutto ribaltato.
Personaggio chiave di questa innovazione è Rubens che arriva a Roma nei primi anni del secolo e realizza subito opere esuberanti alla Vallicella. In mostra c’è il suo San Sebastiano, già modulato con un linguaggio patetico e dinamico insieme. Non il martirio ma l’abbandono a dio. Sorprende inoltre che per l’iconografia di San Lorenzo (in mostra quello di Annibale Carracci) scompare finalmente la graticola sotto i piedi!
Ma il Barocco è anche dogma, regola e quando nel 1613 circola un opuscolo di Agostino Manni su come si prega: volgere gli occhi al cielo, inginocchiarsi, giungere le mani in contemplazione, se ne tiene subito conto per la Maddalena Penitente del Guercino e senz’altro per la Santa Bibbiana (scoperta durante gli scavi per la costruzione della chiesa) che resiste tra i fili del tram di Porta Maggiore.
Il rapporto col divino è un’altra novità e d’ora in poi si aprono cieli e si vedono santi, non più eremiti nel deserto, non mostrano stigmate ma ascoltano musica! come gli Angeli musicanti di Lanfranco (pezzo forte della mostra, restaurato e acquistato dalla Fondazione). La forte carica di sensualità di Atalanta e Ippòmene, opera di Guido Reni (dal museo di Capodimonte) conferma l’importanza del corpo nella pittura dell’epoca.
Succede molto, insomma a Roma, oltre al genio di Bernini che creava di continuo opere fatte nello stesso tempo di leggerezza e volume. E grazie alla mostra adesso sappiamo che Gian Lorenzo non voleva modelli seduti ma nell’atto di muoversi, di parlare, camminare, personaggi viventi e vivaci come il cardinale Scipione (il cui busto è un prestito prestigioso ma discusso). Colonna portante accanto a questo c’è la donna di Gian Lorenzo, il busto di Costanza Bonarelli (da Firenze). La storia di Costanza è la conferma di quanto un artista come Bernini fosse intoccabile anche di fronte a fatti di violenza: anche se sfregia il viso della donna per gelosia, viene condannato il servo esecutore e non lui, che viene solo esiliato.
Non manca neppure il riferimento alla città nella mostra e se l’allestimento si ispira a Borromini, non si trascurano neanche le prospettive multiple come il caso delle opere di Pietro da Cortona. In mostra La madonna e i quattro Santi del 1631 con un taglio già trasversale e più autonomo (il papa è ritratto per diagonale per dare più volume).
Da Cortona non ha una vita artistica impetuosa. La sua è un’esistenza devota (fa assistenza ai malati insieme al Ciarpi) non è byroniana o caravaggesca. Proveniente da una famiglia molto modesta, è a Roma a 15 anni, povero, ma capita nelle mani di grandi maestri. Vive tra la Chiesa Nuova e San Giovanni dei Fiorentini e anche se non ha da subito una pittura seduttiva, quando incontra il poeta Marino e Simon Vouet, tutto cambia. Talento e occasione s’incrociano nel 1623 sotto il papa Urbano VIII che gli commissiona la Divina Provvidenza, una meravigliosa volta da guardare col naso all’insù.
Insomma, la mostra con i racconti del Barocco rende conto delle piccole grandi rivoluzioni del 17° secolo, e se per Milizia: “Borromini in architettura, Bernini in scultura, Pietro da Cortona in pittura, il Cavalier Marino in poesia: sono la peste del gusto”, senz’altro bollava ingiustamente quel momento storico che aveva dato tanto alla cultura romana con nuovi e inaspettati aperture a tutta la cultura europea.
Anna de Fazio Siciliano