Bentornata GranTorino!

di - 9 Novembre 2015
È presto per dire che Torino sia tornata ai livelli di eccellenza di dieci anni fa, prima della crisi, quando i soldi c’erano e la città doveva reinventarsi, convertendo la sua anima industriale in quella di un centro di cultura immateriale. Ma alcuni segnali positivi arrivano, e vanno colti. Cominciamo dalla fiera. Artissima quest’anno registra probabilmente la migliore edizione targata Sarah Cosulich Canarutto. E che le proposte siamo state buone, si vede dagli ingressi arrivati a quota 52mila, e soprattutto dalle vendite che l’hanno premiata. Al netto delle dichiarazioni dei galleristi, che alla domanda ufficiale su “come è andata” dicono che va sempre tutto bene, prendiamo per buone invece le chiacchiere ufficiose nelle quali ci sono sembrati tutti, chi più chi meno, complessivamente soddisfatti. Dunque, la fiera c’è ed è buona.
Bene anche per la sorella minore, The Others, il “cespuglio”, come si autodefiniscono i fondatori Roberto Casiraghi e Paola Rampini, appena un po’ in polemica con Artissima che vorrebbe essere un prato verde senza inciampi. Ingressi alle stelle, buona affermazione anche di “Exhibit”, la mostra promossa da The Others in quello spazio straordinario che è la Borsa Valori di Torino, realizzata con la collaborazione di molte gallerie delle città. E se tra Artissima e The Others i rapporti non si sono ancora distesi, chi viene da fuori nota come la città continui a fare quadrato intorno al suo evento artistico più importante, senza trascurare la sorella minore e un po’ bad girl, che proprio per questo ci piace. Artissima, non solo è sostenuta da decine di sponsor, snocciolati uno ad uno come i grani di un rosario dalla sua direttrice nella conferenza stampa d’apertura, soprattutto ha intorno il consenso della città. Forse anche perché i più avveduti e parte della sua governance capiscono che negli anni peggiori delle vacche magre piemontesi, Artissima ha tenuto in piedi un sistema dell’arte che dalla sua aveva il collaudo di più di un decennio, senza però averne al momento le risorse.
Un segnale d’incoraggiamento arriva anche dal Castello di Rivoli. La recente nomina di Carolyn Chistov-Bakargiev fa presagire la ripresa di un ruolo trainante del museo e fa pensare anche che la Regione e Fondazione CRT abbiano deciso di sostenerlo concretamente, anche perché altrimenti la direzione di Christov-Bakargiev se la scordavano. Il segnale positivo si coglie anche dalle mostre: ottima prova quella della tedesca Paloma Varga Weisz (a cura di Marianna Vecellio) nella sua prima personale in Italia. Un artista colta, poetica che ha realizzato intense installazioni in dialogo con gli spazi non facili del Castello dai quali emerge la serietà del suo lavoro. E molto convincente anche il progetto di Francesco Jodice (a cura di Massimo Melotti), che si misura con consapevolezza con il linguaggio video, installato su grande scala. Sospendiamo il giudizio su “Tutttovero” dove il curatore Francesco Bonami ha tentato una cattelanata: un allestimento volutamente aggressivo e irriverente, senza però avere la forza del vero azzardo.
Ora, di fronte alle buone proposte delle strutture pubblico-private piemontesi, cui in questi anni non è mai mancato il prezioso sostegno della Fondazione CRT, molto dipenderà da quanto Regione e Comune faranno sistema intorno alle proprie creature culturali. Impresa non facile in una realtà, soprattutto regionale, che ha enormi problemi finanziari, ma che ha sempre dimostrato più lungimiranza che altrove nel capire quanto un’articolata e solida offerta culturale possa far bene anche all’economia di  tutta la città. Tanto per dirne una, durante Artissima gli alberghi registrano il 95 percento delle presenze.
Passiamo alle Fondazioni. Ritorno in grande stile della Sandretto Re Rebaudengo con Adrian Villar Rojas, l’artista argentino appena 35enne che, dopo essersi fatto notare alla Biennale di Venezia del 2001 e aver sedotto il pubblico a dOCUMENTA 13, oggi lo divide tra chi lo continua ad amare nonostante alcune debordanze baroccheggianti – un eccesso di nature morte collocate sulle rocce che vengono da Istanbul dove Villar Rojas ha cambiato il progetto che fino allora aveva pensato per Torino – e chi invece lo trova più debole e meno convincente di prima. Divisione che si è già verificata alla Biennale di Istanbul, dove Villar Rojas aveva portato il suo zoo fantastico. Qualunque sia il giudizio, resta innegabile che il progetto presentato in una abbuiata e svuotata Fondazione sia molto forte e dimostri l’eccellente tenuta dell’istituzione ospitante.
Giudizio complessivamente positivo anche per Boltanski alla Fondazione Merz, sebbene “Dopo” (questo il suo titolo) sconti una certa ripetitività nel tema e nella realizzazione (somiglia troppo a quanto l’artista ha proposto per il Padiglione Francese alla Biennale di Venezia del 2011 e prima alla Fondazione Volume! di Roma). Ma l’allestimento rimane di grande impatto e molto interessante è la video-biografia posta all’inizio del percorso.
Ma Torino, oltre a un sole brillante e sorprendentemente caldo, ha regalato altri momenti di piacere. Vi proponiamo il nostro “Best of”, la lista degli appuntamenti da non mancare in città, che purtroppo inizia citandone uno che già manca all’appello. Da oggi, il nome Ludwig van Beethoven sul citofono del civico 2 di piazza Carignano non ci sarà più. Per i giorni della fiera, invece, suonando quel pulsante, si apriva il portone di un palazzo settecentesco e, salendo al secondo piano, si era letteralmente invasi dalla musica, le nove sinfonie di Beethoven, ognuna delle quali risuonava in una stanza diversa e sontuosamente affrescata dell’appartamento sfitto da anni che il gallerista Franco Noero era riuscito ad aprire consegnandolo a Darren Bader. L’artista americano ha realizzato un progetto che è un vero inno alla gioia (il sole e la luce che di giorno entravano dalle finestre facevano la loro parte) e al tempo stesso impossibile: l’eventuale acquisto prescrive l’obbligo di suonare tutte insieme le nove sinfonie.
Darren Bader però è ancora presente alla galleria Noero in via Moltacciata, con un’installazione che unisce pietre e specchi, apparentemente in modo casuale, ma che invece si guardano le une negli altri, la matericità delle roccia nella levigatezza a volte stravagante o classicissima dello specchio, secondo una precisa regia dell’artista. E con “Rocks and mirrors” possiamo dire che Bader a Torino si è laureato con la lode.
Piena promozione anche per la galleria Guido Costa projects che ha avuto la pazienza di attendere sette anni Paul Etienne Lincoln, l’artista britannico autore di “The Glover’s Repository”. Complicato e affascinante progetto sul tradimento, incarnato da personaggi che sono stati traditi o che hanno tradito, non tanto sul piano sentimentale ma su quello storico, simboleggiati a loro volta da un dettaglio, un guanto, che è diaframma tra la persona e l’altro e gesto di sfida proprio per lavare dei tradimenti: “gettare il guanto”. I guanti in questione si muovono guidati dal meccanismo costruito dall’artista al cui centro è collocato un orologio (facsimile a sua volta del celebre Big Ben londinese) che li fa ruotare su se stessi. Ciascun personaggio, tra gli altri: Mata Hari, D’Annunzio, Gagarin, la Contessa di Castiglione, Primo Carnera è documentato anche da note bio-bibliografiche contenute in un archivio.
Nel nostro “Best of” non può mancare un’altra “casa”, quella di uno dei personaggi più eccentrici e geniali di Torino, Mollino, in quella via Napione che fu di Carol Rama. Nell’appartamento che il celebre architetto creò per viverci oggi, ovvero dopo la morte, avvenuta nel 1973, il tempo, la luce e gli agenti atmosferici hanno oscurato le pareti specchianti. La giovane Stefania Fersini, 1982, con la curatela di Matteo Mottin, attraverso la forma ovale (specchiante) che si trova sulla porta d’ingresso (e che energicamente dice a chi entra nella dimora “non sei il benvenuto”) rimette in moto l’azione riflettente di un piccolo supporto della stessa forma e dimensione, collocandolo sulla parete alle spalle del tavolo da pranzo, ovale. Dov’è l’inghippo? È un olio su tela, in una chicca deliziosa e inquietante che “guarda” alla celebre parete del soggiorno, dove sono collocate le due poltrone viola.                            
Un progetto in progress, delicato e decisamente imperdibile se amate le collaborazioni tra idee ed epoche, che Fersini ha maturato dopo diverse settimane di “residenza” a casa Mollino, e che probabilmente realizzerà anche in altre dimore «per osservarle nel profondo», ci dice l’artista. Vengono in mente le fotografie di Duane Michals, le sue scatole cinesi. Carlo Mollino ha un nuovo omaggio, e nella Torino dei misteri è affascinante pensare che anche Senza Titolo (Assenza) possa tornare specchio, e dunque presenza viva. Come vive l’architetto.
Adriana Polveroni

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