Entrare al museo Macro la sera dell’inaugurazione è stata un’esperienza esaltante, una nuova energia sembrava pervadere quelle sale che neanche un anno fa rischiavano di avviarsi a una precoce vecchiaia. E invece oggi il MACRO è di nuovo un luogo vivo, un museo “amico”. “Salutato” all’ingresso di via Reggio Emilia dalla gigantesca e colorata istallazione Plastic Bags di Pascale Marthine Tayou e dalla performance che Marcello Maloberti ha proposto la sera: la rottura simultanea di 27 pantere in ceramica scaraventate a terra da altrettanti attori, producendo un rumore fortissimo e fortemente liberatorio.
Ma a rendere vivo il museo è il progetto delle residenze che ne fa un polo di attrazione per un pubblico non abituato a frequentarlo come realtà dove si produce l’opera, così come la capacità di essere un luogo di memorie storiche, con il doveroso omaggio a Vettor Pisani (l’artista performer concettuale, morto a Roma in miseria nell’estate di un anno fa e di cui segnalo l’interessantissima documentazione fotografica dei primi anni Settanta delle sue performances). E poi un luogo di cultura grazie alla possibilità, davvero unica e preziosa, di poter ammirare i capolavori della collezione Berlingieri-Leopardi, una delle più importati e longeve del nostro Paese, che al MACRO ha portato opere che si prestano a tracciare un percorso dal tema del ritratto alla “psicologia” della percezione fino ad addentrarsi nei meccanismi del rapporto tra lo spettatore e l’opera.
Nella grande sala Enel al piano terra il rumeno Mircea Cantor (Oradea-1977) presenta la sua personale con dei nuovi lavori creati appositamente per lo spazio espositivo. Sic transit gloria mundi (così passa la gloria del mondo; in senso lato: “come sono effimere le cose del mondo”) è una celebre massima in lingua latina, oltre che il titolo di questa prima personale di Mircea Cantor in un museo italiano. La frase deriva da un passaggio dell’Imitatio Christi: O quam cito transit gloria mundi che assieme alla formula Habemus papam è una delle più conosciute locuzioni riguardanti la nomina di un nuovo pontefice. Queste parole, secondo l’antico rito, erano ripetute dal cerimoniere al nuovo Papa subito dopo la sua elezione al soglio di Pietro. Con esse si voleva rammentare al vescovo di Roma, e capo della Chiesa cattolica, la transitorietà del potere temporale e quanto la vita sia caduca, così come sia vano ogni sfarzo del mondo terreno.
Già il titolo, così denso di rimandi simbolici, è un buon indizio per capire quali sono i temi che l’artista esplora con il suo lavoro che comprende installazioni, video e fotografie. Vita, morte, bellezza, fede, credenze popolari, superstizione, sacralità e allegorie popolari queste sono le basi su cui Mircea Cantor costruisce le sue opere esteticamente perfette e concettualmente in bilico fra serietà ed ironia. Il centro della sala espositiva è quasi interamente occupato da una grande struttura di legno, costruita con quella perizia tecnica che è propria dell’artigiano ebanista rumeno, modellino in scala ridotta dei profili della basilica di San Pietro. Il simbolo della Roma cristiana e di tutto il mondo cattolico sembra un giocattolo abbandonato per terra da un bambino stanco, ma, non è solo il materiale a riportarci con la memoria a quei giocattoli ingenui e ormai “vintage” che forse, ancora chi è nato alla metà degli anni Sessanta, si può ricordare. Il modellino ha lunghe corde, che lo agganciano a una grande crociera, come quelle che i burattinai tengono fra le dita di una mano per tirare i fili dei loro pupazzi, che giace a terra in attesa di essere manovrata. Un lavoro “politico” che allude a un mondo, quello chiuso e misterioso della curia cattolica romana, luogo di grande potere dove la spiritualità è soffocata da paludamenti mondani.
Spicca, sulla grande parete a destra dell’entrata, il video che dà il titolo alla mostra Sic transeat gloria mundi, immagini perfette con una risoluzione tecnica di altissimo livello per raccontare un oscuro cerimoniale sospeso fra spiritualità, esoterismo, rito sciamanico e prefigurazione di morte. Una giovane e diafana fanciulla dalle fattezze orientali, avvolta in un saio bianco di cristologica memoria, cammina scalza al centro di un circolo di mendicanti che si inginocchiano prostrandosi a terra e tenendo i palmi delle mani aperte così da ricevere, uno dopo l’altro, un candelotto di dinamite con la lunga miccia accesa che si sta lentamente ma inesorabilmente consumando. Rito, memorie religiose, folclore e simbologia esoterica tutto si intreccia e si fonde nei lavori di questo visionario e ironico creatore di immagini potenti che interrogano la cultura, la politica e la società attuali in modi sottili ed emotivamente coinvolgenti. In fondo alla sala spicca nella sua luminosa lucentezza una spirale che riproduce in scala monumentale la doppia elica del DNA. Questa scultura aerea e leggera è appesa al soffitto ed è formata da tre moduli di m. 3.14 ciascuno, come la misura del p greco euclideo. Avvicinandosi ci si rende conto che l’opera, attraente nel suo prezioso splendore, è formata da un’innumerevole serie di spille da balia placcate d’oro tutte legate fra loro. La struttura della molecola base della vita, realizzata con le spille da balia, un piccolo oggetto simbolico che ricorda la maternità e l’intimità familiare, rientra in una sfera di accudimento domestico che, in un gioco di rimandi simbolici, mette in relazione la vita in senso generale con quella quotidiana e domestica.
La chiesa cattolica è anche il tema della videoinstallazione di Christian Jankowski Casting Jesus. Lavoro acuto, intelligente, originalissimo come questo artista tedesco, che lavora molto sui meccanismi di persuasione dei media, riesce a realizzare. Girato un anno fa a Santo Spirito in Sassia, per il ciclo “Spirito” che propone mostre e performance della durata di un giorno, il video fa vedere tredici attori tra i quali una giuria, presieduta dal sottosegretario alla Pontificia Commissione per i Beni culturali della Chiesa, Monsignor José Manuel del Rio Carrasco, che sceglierà chi interpreterà Gesù. I tredici attori vestono i panni degli apostoli, gli viene chiesto di spezzare il pane, assumere espressioni di sofferenza o di gaudio. Ed è esilarante vedere come il Monsignore diventa un abile regista, gli attori ce la mettono tutta per essere Gesù, in una cornice in cui le continue sovrapposizioni tra realtà e finzione, mostrate dai due video che scorrono contemporaneamente – uno con la telecamera puntata sulla giuria e l’altra sugli attori – restituiscono in tempo reale.
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