Bisogna volere bene per fare belle foto

di - 10 Febbraio 2015
Roma, 20 gennaio 2015. È un fotoreporter speciale, Mario Dondero (di origini genovesi è nato a Milano nel 1928, vive e lavora a Fermo), che ha saputo essere coerente con se stesso e con una professione (lui la chiama “mestiere”) che non ha mai messo da parte. Ha iniziato negli anni ’50, intuendo le grandi potenzialità della fotografia, in quanto mezzo per «raccontare più da vicino» quello che accade nel mondo. O, meglio, «per cercare di raccontare quello che vedo alla mia maniera», precisa nell’intervista “Calma e gesso – conversazione con Mario Dondero” (il video è prodotto e diretto da Marco Cruciani per Sol Si Fa Audiovisual), che introduce alla mostra “Mario Dondero”, curata da Nunzio Giustozzi e Laura Strappa nelle Grandi Aule delle Terme di Diocleziano a Roma (fino al 22 marzo).
A Milano s’inventa il lavoro del fotografo freelance, condividendo momenti di genuina complicità con gli amici del tempo, primo fra tutti Ugo Mulas, conosciuto nei primissimi anni ‘50 in un giardino pubblico mentre entrambi, seduti su una panchina, leggevano l’Unità. Un periodo fertile, di incontri e scambi, soprattutto al Bar Jamaica, con vari amici fra cui Carlo Bavagnoli e Alfa Castaldi, per lo più senza una lira in tasca ma con la voglia di esplorare i confini dell’esistenza.
Dondero non resiste all’impulso della libertà. È insofferente al clima di competitività e alle dinamiche interne alle redazioni dei giornali. Vuole dar voce a quella voglia di vivere che è in lui e che il mezzo fotografico esalta, nel momento in cui si rende conto che è la chiave d’accesso al «vagabondaggio sfrenato e libero», da «esploratore solitario».

La prima tappa, che rimarrà sempre lo scenario principale dei suoi racconti (privati e pubblici), è Parigi – «grande motore di vita culturale» – dove fotografa personaggi come Jean-Paul Sartre, Samuel Beckett, Eugène Ionesco, William Saroyan, Julio Cortàzar, Yacher Kemal, Charlie Chaplin, Jean Genet in occasione di un suo incontro con Angela Davis. Particolarmente nota la foto (è anche la copertina del libro Donderoad. Gli scrittori di Mario Dondero del 2008) del Nouveau Roman davanti alla sede delle Éditions de Minuit con Robbe-Grillet, Simon, Mauriac, Lindon, Pinget, Beckett, Sarraute e Ollier (1959).
In un’altra fotografia parigina, che è stata scattata durante una manifestazione nel 2011, troviamo il motto che Dondero farà suo: Libertè, Égalité, Fraternitè. In questa sorta di moderna Zattera della Medusa è scritto sul cartellone in primo piano.
Libertà, uguaglianza, fratellanza per il fotoreporter significano anche il rispetto per il prossimo e la spontaneità nel credere negli ideali sociali e politici della sinistra, alla base di un mondo potenzialmente migliore. E non è utopica l’atmosfera che ritroviamo nelle sue fotografie. Basta vedere quelle scattate nell’Ospedale di Emergency a Kabul (2008), subito dopo l’arrivo di un pastore kuchi ferito da una mina antiuomo a cui vengono prestate cure d’urgenza. Non c’è pietismo, ma l’osservazione del fatto così come si svolge davanti ai suoi occhi.

«Non è un mestiere innocente, quello del fotoreporter». – afferma Dondero – «È un mestiere di grande responsabilità, perché le foto assumono un significato diverso dal momento in cui vengono scattate».
Un’affermazione che trova immediato riscontro in una delle immagini più emblematiche della storia della fotografia: Morte di un miliziano di Robert Capa. Indipendentemente dalle discussioni che nel tempo si sono innescate, questa foto ritrae un uomo colpito a morte che cade a terra, nei pressi di Cerro Muriano, il 5 settembre 1936. Capa (e con lui la compagna Gerda Taro) furono testimoni oculari, tra il 1936 e il ’39, della guerra civile spagnola.
Per Mario Dondero il fotografo ungherese è stato il primo mentore, proprio per la sua passione e la forza nel raccontare la vita, per la solidarietà con il soggetto ritratto. Come, in altra maniera, lo è stato Ryszard Kapuściński che cita, sostenendo che nel rapporto con l’altro egli «ha teorizzato l’attitudine all’essere solidale: non si tratta di essere predatori, ma complici».
È una scelta curatoriale molto consapevole, quindi, quella di iniziare il percorso della mostra – che coincide anche con lo schema del bel libro che la accompagna, prima monografia dedicata a Mario Dondero, nonché volume d’esordio della collana Electaphoto – proprio con il “pellegrinaggio” del fotografo sulle tracce di Capa sulle colline di Cerro Muriano e ad Alcoy, nel 2006, a casa della nipote di Federico Borrell Garcia (identificato come “Il miliziano di Capa”) che mostra vecchie foto dello zio, nonché quella della tomba di Gerda Taro nel cimitero parigino di Père-Lachaise (2001).

Si procede per storie, accostando il bianco e nero al colore: peccato che le immagini ristampate in occasione della mostra e montate su forex, annullino il fascino del vintage con i segni del tempo, appiattendo anche l’approccio emotivo dell’osservatore.
Riconosciamo Pier Paolo Pasolini nel ’65, durante le riprese di Comizio d’amore sulla spiaggia di Viareggio; un giovanissimo barman a Barcellona, che rievoca un racconto di Hemingway (1964); la scritta “Shalom” tracciata con un dito sulla neve fresca nel cimitero ebraico di Praga (1972); gli occhiali di Gramsci conservati nella sua casa natale a Ghilarza (1980); Ascanio Celestini nel camerino del teatro a Roma (2009) e in un angolo dello specchio, riflesso, mentre fotografa, c’è l’autore dello scatto.
Tante storie, incontri in cui la fotografia è protagonista centrale, direttamente e indirettamente, in quanto permette di «viaggiare tanto, farsi altri amici, incontrare altre donne», quindi è il mezzo per tradurre «il piacere di vivere, condividere». Ma anche le paure, come quando il fotoreporter si perse nel deserto del Sahara o quando finì in carcere, in Guinea nel 1970.
C’è da dire che Dondero non è affatto un nostalgico, diversamente da altri suoi colleghi e amici (come Gianni Berengo Gardin) non ha posto resistenza nel relazionarsi alla tecnologia digitale che ha rivoluzionato la fotografia. Anzi – procedendo per intuizioni – ne ha colto subito gli aspetti positivi dell’immediatezza, della sua democraticità. L’importante, ancora una volta, è essere coerenti e fantasiosi, quindi «critici, pazienti, tenaci, colti e – come dice Kapuściński – bisogna volere bene alla gente per fare delle belle foto».
Manuela De Leonardis
In home page: Mario Dondero ritratto da Elisa Dondero © Dondero
In  alto: La Regina Sibeth della tribù dei Flups, popolo originario della Guinea-Bissau, rifugiatosi in Senegal a causa della guerra, nei pressi di Ziguinchor (Casamance), 1970 © Mario Dondero

Nata a Roma nel 1966, è storica e critica d’arte, giornalista e curatrice indipendente. Con Postcart ha pubblicato A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (2011), A tu per tu con i grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (2013); A tu per tu – Fotografi a confronto – Vol. IV (2017); Cake. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (2013), progetto a sostegno di Bait al Karama Women Center, Nablus (Palestina). E’ autrice anche Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (ali&no, 2015) e Isernia. L’altra memoria – Dall’archivio privato della famiglia De Leonardis alla Biblioteca comunale “Michele Romano” (Volturnia, 2017).

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