L’ultima edizione della rassegna bolognese Corpo d’artista 3, centrata sulle evoluzioni e le rivoluzioni dell’identità nell’ultimo secolo, ha ospitato quest’anno una retrospettiva completa di Brice Dellsperger (Cannes 1972). L’artista francese mette in scena, in modo parodistico, una complessità identitaria che il cinema propone come spettacolo, facendo la contro-figura drag di personaggi resi celebri dai film di Hitchcock, Linch, Gus Van Sant e Brian De Palma.
Nell’arco di dieci anni di attività l’artista francese, presente nella sezione cinematografica di Art Basel 35 e in partenza per New York, ha prodotto 18 video che ripetono meticolosamente ogni inquadratura (con suoni, dialoghi e musiche originali) delle scene selezionate di pellicole incentrate sul gioco delle identità, come Un vestito per uccidere o Le due sorelle di Brian De Palma.
Dellsperger tratta la materia filmica, che già rappresenta uno slittamento della realtà su celluloide, come fenomeno primario a cui ispirarsi per comporre l’immagine artistica. Dentro questa mise-en-abime della realtà e della finzione, la verità sprofonda nel dato narrativo per riemergere nella limpidezza di una reazione emotiva molto differente dall’originale, stimolata in uno spettatore reso partecipe dell’immaginario dell’artista. Chiamato ad un lavoro di decodifica di luoghi comuni, il fruitore è blandito dallo stile volutamente ed eccessivamente kitsch dell’artista, che nell’irresistibile scena della girandola travoltiana de La febbre del sabato sera tocca i limiti sublimi della parodia. Come dice la curatrice, Fabiola Naldi (autrice di I’ll be your mirror, Cooper Castevecchi, 2004, libro dedicato al travestitismo nell’arte contemporanea), “il lavoro in low defition di Dellesperger è una scelta consapevole”, a favore di una strategia che realizza lo slittamento lacaniano dei significanti all’interno di una proliferazione visivo-concettuale-emotiva che si avvale della frammentaria intuitività della videoarte, non soggetta alla pesante strutturazione narrativa del cinema.
Tra suspense e comico, inseguimenti e seduzioni mancate, il grottesco e l’ossessivo (esemplato nella masturbazione finale di Mulholland Drive, ripresa in trittici e declinata su decine di controfigure drag) si intrecciano per definire una nuova identità, maschile trasmigrante, dispersa in labirintici mondi interiori metaforizzati nella scena dell’inseguimento nel Metropolitan Museum di Vestito per uccidere.
La ricerca di Dellsperger tratta il cinema come lo specchio di fronte a cui il protagonista/attore/regista/artista, fuggito dalla sua sede culturale (che il pregiudizio confonde con “naturale”), si afferra in modo frammentario, emotivamente pieno ma anche mitizzato, in visioni riciclate da quel mare magnum di immagini/sentimenti che è il cinema.
L’inseguimento dell’altro/stesso, di una ipseità che non si riconosce più nello schematismo ufficiale dei ruoli sociali e sessuali, fa di Dellsperger un meticoloso amanuense disperso, con fantasia consapevole, nelle storie che copia e che personalizza con il proprio linguaggio kitsch, che va da Warhol ai videoclip elettropop anni ottanta.
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