I tempi di posa di Sam Laughlin sono lunghissimi. Anche dieci minuti di impressione della pellicola, rigorosamente in analogico. Ed è strano, perché Sam ha poco più di vent’anni e le sue immagini, allo sguardo, mettono in atto una sorta di gap da cui è difficile escludere la sua giovane età e un processo che, in apparenza, ricorda la fotografia “d’epoca”. Eppure Laughlin è affascinato da questo “costruirsi” di immagini, dove l’attenzione è fondamentale, dove non ci sono migliaia di shoot possibili per catturare un frammento di storia, ma dove ogni elemento compositivo va ricercato prima del “clic”, quell’attimo in cui l’immagine si fissa, dopo essere stata tutta costruita attorno. È forse in qualche modo un “atto storico”, ed è forse per questo che “Rebuild History”, la sua prima personale italiana da Rizhoma, scava proprio intorno a un concetto che rimodella storia, macerie e forme, ricollegando il tutto come un filo di Arianna. Non è un caso che per la serie Geschichte, Storia in lingua tedesca, sia stata scelta proprio Berlino, “vista” in una serie di immagini che riprendono, in notturno -da qui i tempi lunghissimi di esposizione- una serie di cumuli di terreno o materiali sottili per l’edilizia che fanno assomigliare questi scavi per una nuova urbanità delle vere e proprie vette, impervie e selvagge. Una storia dalla doppia facciata, dove la figura si confonde e dove è facile fraintendere cosa si sta osservando. Accade anche nella seconda serie in mostra, composta da piccole stampe montate su carta. Anche qui in un’estetica che vira dal bianco al nero senza passare per il colore, vi sono cumuli di cenere. A volte chiara, spesso più scura. Sono ceneri di Schopenhauer, Galileo o Kant, che ricordano il rogo davanti all’Università Humboldt nel 1933, e che rimescolano la costruzione di un mondo “umano”, dove l’uomo in alcuni momenti pensa al proprio annientamento. C’è misura nelle immagini di Laughlin, c’è quasi il sospetto di un “riscatto” nei confronti di una materia “sporca” che è anche materia dell’arte, e che possa in qualche modo ricongiungerci ad una storia universale. Che per ora sembra composta interamente di macerie che grazie all’immagine, e ad una nuova disposizione, possono diventare documentario di una ricerca forse anche antropologica, alla ricerca della capacità umana di ricostruire. Ma per sottrazione.
Non è per niente insolito imbattersi per le strade di Brighton, cittadina a sud-est dell’Inghilterra, ed incontrare alcuni dei principali esponenti della fotografia contemporanea inglese come Simon Roberts, Ewen Spencer, Mark Power. Ciò che stupisce, invece, è la grande affluenza da parte della nuova generazione di fotografi anglosassone intenti a migrare proprio verso lo stesso luogo. Sam Laughlin, come Laura Pannack, Jack Latham ed Alexander Norton provengono dalla medesima Scuola di Fotografia di Newport. Altri, invece, dalla vicina metropoli londinese e tutti con l’unico intento di confrontarsi. Che avviene proprio nella Brighton contemporanea attraverso workshop, mostre e dibattiti dando testimonianza di una tendenza più viva qui che in grandi metropoli come Londra. Che si tratti di una nuova migrazione o meno si vedrà nel tempo, ma certo è che questo spostamento pare essere in grado di generare un nuovo centro artistico e culturale. Ecco cosa ci ha raccontato a proposito lo stesso artista.
Sam, nasci a Cambridge nel 1990. Com’è vivere in una città con una alta media di popolazione over 50 e con una bassa densità, se non assente, di circuito artistico?
«Vivere a Cambridge riserva un po’ di paradossi. Ci sono molti giovani, che non superano la popolazione più anziana, ma che generalmente vivono lì solo per frequentare l’università. Cambridge è luogo molto vivo culturalmente ed è un centro nevralgico per la letteratura e la filosofia, ma non per la fotografia e l’arte».
La Scuola di Fotografia di Newport ti ha dato la possibilità di guardare “oltre” i tuoi confini geografici. Quali sono state le differenze che hai riscontrato rispetto al luogo in cui sei nato?
«L’essermi spostato a Newport mi ha aperto gli occhi su molti aspetti anche in riferimento alle mie origini. Ho sempre visto Cambridge come un luogo rarefatto, quasi “ovattato”. Newport invece mi ha dato la possibilità di conoscere la mia reale identità artistica, cosa che non avrei potuto sviluppare a Cambridge».
Non molto lontano da Londra si trova Brighton, luogo marittimo e località turistica. Da qualche tempo è diventata centro vivace per molti giovani fotografi inglesi che hanno deciso di renderla dinamica attraverso iniziative culturali legate alla fotografia. Come ci si sente ad avere 23 anni e fare parte di questo ambiente?
«Sì, è vero, Brighton attualmente è una sorta di “culla” della fotografia nel Regno Unito. Ho diversi amici che ci si sono trasferiti e probabilmente anche io deciderò di farlo. È sicuramente meglio di Cambridge rispetto all’attenzione che nutre nei riguardi della fotografia e trovo che sia luogo ideale per i giovani fotografi che vogliono confrontarsi con altri».
Pensi che questa concentrazione a sud dell’Inghilterra sia un caso o credi ci sia un’attinenza da ricercare in certi fattori culturali?
«Ci sono diversi fattori che contribuiscono alla concentrazione della fotografia nel sud dell’Inghilterra. È sicuramente un fenomeno che si auto-genera nel tempo perché quel luogo è percepito come propizio. I fotografi si trasferiscono a Brighton perché sanno che lì possono riuscire ad avere il riscontro che desiderano e allora iniziando a crearsi un loro pubblico. Ad incrementare il tutto vi è anche una favorevole situazione economica, l’arte tenda a sopravvivere nei luoghi in cui si vive agevolmente anche dal punto di vista economico. Ad ogni modo, così facendo, si genera una sorta di “nicchia” o gruppo ma non nel senso negativo del termine. Tuttavia vi sono altrettante situazioni interessanti anche lontano, proprio perché esistono diversi “centri” dell’arte che cambiano costantemente. In merito a ciò mi sento di citare uno dei più importanti festival della fotografia, ad ampio respiro internazionale, che si tiene a Cardiff. Anche nel nord dell’Inghilterra l’interesse è vivo attraverso lavoro della Side Gallery di Newcastle o della Impressions a Bradford».
Si potrebbero citare alcuni dei maggiori promotori di questa “tendenza”, che di modaiolo ha ben poco: tu, Laura Pannack, Jack Latham, Alexander Norton. Tutti di origine britannica, tutti fotografi e alcuni addirittura provenienti dalla stessa scuola di fotografia. Pensi sia il caso di parlare della nascita di un “gruppo” con un preciso orientamento estetico o poetico? In che modo, e ti senti unito a loro?
«Descrivere il tutto come una tendenza credo sia il modo migliore e sento di farne parte forse perché i rappresentati da te citati sono amici con i quali interagisco e vivo questa situazione. Con molti di loro, come ad esempio Jack Latham, ho anche studiato alla scuola di fotografia. C’è senza dubbio un movimento, nell’ambito della fotografia inglese, lontano da un tentativo di ritrarre esclusivamente la realtà».
A tal proposito, cosa pensi stia “ritraendo” questa nuova tendenza?
«La fotografia britannica sembra esprimere una grande varietà di temi e idee attraverso l’uso del paesaggio o del ritratto ma è davvero molto difficile definire una singola tendenza. Probabilmente è proprio questa varietà di intenti, tecniche o stili a caratterizzarci. Tuttavia, se dovessi trovare qualcosa in grado di unire l’esperienza dell’attuale fotografia inglese, penso ruoterebbe attorno alla sua lunga tradizione documentaristica e ad uno sguardo verso l’essere umano, le cose da lui generate e la sua vita».