Buenos Aires mon amour

di - 7 Settembre 2015
La città di Borges, di Maradona, dei “barrios” eleganti come quello di Palermo, o popolari come La Boca, noto per il club di calcio e per i tangueri, ma anche la terza metropoli più popolata dell’America del Sud, in altre parole Buenos Aires. La capitale argentina vista attraverso 65 artisti di età diverse, magari non tutti noti ma con molto da dire, riuniti nell’esposizione “My Buenos Aires”.
Aperta fino al 20 settembre presso la Maison Rouge di Parigi, la mostra fa parte di un ciclo, che iniziato nel 2011, è dedicato alle città, la megalopoli sudamericana è stata preceduta da i focus su Johannesburg e su Winnipeg in Canada. La “mia Buenos Aires”, sottolinea la visione personale e tutta da scoprire di artisti perlopiù nati nella capitale, che ce la raccontano attraverso strade e volti dimenticati o nuovi, lontano dai sentieri turistici di cartoline sbiadite e che non mancano di mostrarci senza paure i segni indelebili di una dolorosa storia, quella che va dalla dittatura (1976-1983), al fenomeno dei desaparecidos, fino alla grande crisi economica del 2001. Un vero patchwork coloratissimo dalle trame variegate, spesso autobiografiche, che mette in prima linea la strada e la gente, senza esclusione di generazione o di classe, attraverso poesie, musiche, video, foto, pitture, sculture ma anche installazioni.
Sollecitando l’empatia dello spettatore, la mostra regala l’insolita sensazione di passeggiare non per sale espositive, ma per i quartieri di una delle più belle metropoli al mondo. Così una città misteriosa si apre ai nostri occhi con un gran numero di opere, ben 120, tra strade notturne e piazze soleggiate, bancarelle con merce contraffatta, passaggi misteriosi che attraversati uno dopo l’altro la ridisegnano restituendocela come un unico corpo.

Si riscopre una nuova urbanità e il senso della comunità, attraverso lo sguardo sognatore, o disperato, o realista di artisti che hanno in comune la voglia di testimoniare, di condividere la loro visione della realtà, e in cui si coglie qua e là un concetto rinnovato di cultura della sostenibilità. Mediante cosa? Vedi l’uso di materiali, poco tecnologici, ma piuttosto grezzi, che vanno dalle stoffe, al legno, alla ceramica e al gesso. Sono presenti la fotografia e il video, che però non intaccano la dimensione umana dell’opera. In molte creazioni l’artista stesso si mette in prima linea per raccontarci la sua esperienza, quasi sempre con umorismo, anche se drammatica come quella di Ana Gallardo in Casa Rodante (video, 2007). Nel 2006 l’artista e sua figlia rimangono senza casa, dopo aver passato oltre un anno a casa di amici finalmente trovano un tetto, ma alcuni mobili a cui entrambe erano molto legate, non entrano nel nuovo alloggio, così Ana Gallardo decide di assemblarli per farli diventare le pareti di una casa su ruote che trascina per le strade di Buenos Aires a colpi di pedalate, il video ritrae il percorso dell’originale carovana. L’artista, inoltre, presenta il video A boca de jarro (Point Blank, 2008), in cui filma Silvia Mónica, transessuale e militante di un’associazione di donne che hanno battuto il marciapiede. Silvia, che da sempre ha voluto cantare, intona sulle note di un tango popolare di Osvaldo Fresedo il testo di un articolo che parla della prostituzione infantile in Argentina. Ana Gallardo è attualmente esposta alla Biennale di Venezia presso l’Arsenale.

Tra i video anche Totloop (16-mm video, 2003) di Fabio Kacero, qui l’artista si mette in scena morto, disteso per strade via via diverse, si confronta con l’indifferenza generale. Ma anche Pasajes #1 e Pasajes #2 (video, 2012) di Sebastian Diaz Morales, due video di carattere minimalista, in cui l’artista attraverso porte dopo porte, ci porta a spasso tra vicoli, edifici, musei, scale e stanze. E in un labirinto interminabile ripercorre silenziosamente a piedi la capitale come in un flusso di coscienza. Ma eccoci nel bel mezzo della Salada, il più grande mercato argentino di merce contraffatta venduta a prezzi stracciati. I locali, i commercianti e gli artigiani sono seguiti dall’occhio infaticabile di Julián D’Angiolillo, che ne ha fatto un interessantissimo documentario dal titolo Hacerme Feriante (2010), che ripercorre la storia di un luogo che cambia freneticamente, passando così da chi produce i prodotti contraffatti per poi piombare nel cuore dell’organizzazione.
In My Buenos Aires scopriamo che la comunità artistica, oltre ad essere vivacissima, è molto solidale: per fronteggiare la carenza di infrastrutture, gli artisti aprono i loro atelier ed organizzano le cosiddette “charlas”, ovvero discussioni. Il sentimento di condivisione tra artisti lo ritroviamo nell’opera Nota al pie di Guillermina Mongan, libro polifonico che racconta storie costruite collettivamente. Il punto di partenza di questo grande puzzle murale, composto di documenti disparati dagli appunti alle foto, sono i 65 artisti della mostra, che figurano anche nel sito www.nota-al-pie.org realizzato per completare il lavoro collettivo.

Con la serie Flâneur (2004), la bella fotografia di Alberto Goldenstein solca le strade della città catturando la gente che la vive e la crea, senza enfasi ma con realismo e amore del dettaglio. Tra i lavori interessante Cartelera (2004-2015) di Elisa Strada, che presenta un enorme cartellone completamente riempito di ogni tipo di volantino, banale o insolito, che vanno dal politico alla vendita di oggetti, dai corsi di chitarra alle prestazioni sessuali, con cui l’artista tratteggia, in una sorta di work in progress, una mappa della memoria della città. Tra le installazioni Dominio (2013) di Tomás Espina & Martin Cordiano, nata in una residenza al MAC/VAL, museo d’Arte Contemporanea del Val de Marne, alle porte di Parigi, l’opera s’ispira ad un testo teatrale di Roberto Espina. Viene qui presentato un alloggio arredato di tutto punto, rassettato dopo una scossa di terremoto, che mostra ancora ben visibili le profonde fratture dei mobili, le fenditure rimandano a sofferenze indelebili.
Da non perdere l’inquietante capanna in legno di Eduardo Basualdo, La isla (2007-2014), dovei ritroviamo, calati in una semioscurità: bonsai morti, disegni, crani umani e sculture sospese realizzate con piantine vegetali. Anche Basualdo è attualmente presente alla Biennale di Venezia. Infine, intriganti le sculture di Diego Bianchi, Sculptures cachés (2015), poste dietro pareti intagliate di alcune sale espositive, ma anche Carlos Huffmann con Portrait of the artist as a young writer (olio su tela, 2012).
Una mostra da non lasciarsi sfuggire, che si può riassumere con queste parole. “Buenos Aires, costellazione di storie possibili, come quei libri per bambini in cui il lettore è anche il personaggio principale”. Commenta Albertine de Galbert, curatrice dell’esposizione insieme a Paula Aisemberg.
Livia De Leoni

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