«Rivisitare l’esistente è attività complessa» ha scritto una volta Cinzia Bontempi, oggi alla guida curatoriale di Parada Art e alla direzione artistica di Bienno Borgo Artisti 2.0, che non solo e non soltanto è progetto artistico e associazione, ma anche vero e proprio «alveare in cui creatività e ambiente si fondono per ispirare e promuovere il lavoro degli artisti». Con queste parole Bontempi definisce le residenze d’artista che ogni anno si aprono a Bienno rivolgendosi verso l’esterno, l’innovazione e la contemporaneità per accogliere nuove menti e nuovi spiriti e dare origine a un coro di vite, di linguaggi e di sentieri.
Le residenze annuali del 2024 che hanno portato alla nascita di Parada Art – forse non c’è miglior espressione che possa restituirne l’essenza e il potenziale di quel “coro di vite, di linguaggi e di sentieri” – avevano in esordio il tema Serendipity e si sono sviluppate tra le 10 botteghe del borgo messe a disposizione come atelier e le fucine, proprio come vuole la serendipità ovvero l’occasione di fare scoperte per puro caso e la possibilità di trovare qualcosa di non cercato, figurandosi delle radici che affondano nel terreno per nutrirsi dell’energia vitale scaturita dalla storia di Bienno.
Le radici, che in botanica costituiscono uno dei tre organi caratteristici delle cormofite che si forma nell’embrione e si sviluppa penetrando nel suolo con la funzione di fissare la pianta al substrato, di assorbire l’acqua e i nutrienti in essa disciolti e di accumulare sostanze di riserva, a Bienno si manifestano visivamente in un trionfo di luci nella forma di molteplici emozioni che – come ricorda Didi-Huberman nel suo Che emozione! Che emozione? «Hanno una potenza – o sono una potenza – di trasformazione. Trasformazione della memoria in desiderio, del passato in futuro, o della tristezza in gioia». Memoria, desiderio, passato, futuro sono proprio alcuni degli estremi dei sentieri lungo cui ci si muove, a partire dall’opera di Stefano Boccalini, DebtCredit, che si radica nel contesto sociale a partire dal legame con la dimensione economica contemporanea, fino a C’era qualcosa che aspettava il mio arrivo, il docu-emotional di Salvatore Insana che cattura episodi di vita biennese tra presenze animate e inanimate, forze della natura, sacre iconografie e lontani spiriti, “confabulare” di rondini e lamenti di bovini, fragore di martello e di acque imperterrite, levarsi di mantici e ronzio di motori.
All’ingresso della Fucina Parada Sue Kim, ispirata dalla tradizione dell’arte della ferrarezza biennese (proprio a Bienno, già nel ‘400 si producevano le corazze per la Repubblica Veneziana), ha disegnato, costruendola nell’aria, una griglia cubica che con l’aggiunta di materiale specchiante invita lo spettatore a entrare nell’opera, avvolgendolo con sonorità che lei stessa ha registrato nel mentre della lavorazione all’interno della fucina (Matrix). Yerzhan Uskenbay con la video installazione Sudy madaqtauda (in lode all’acqua) maneggia, monitora, e ancora di più anima, con la tecnologia digitale, l’archivio di tutti i dati che hanno documentato e documentano la quantità, e quindi il movimento, dell’acqua. È di ricerca anche il lavoro di Pierpaolo Grandinetti che con la fotogrammetria è riuscito a creare un momento spazio-temporale della miniera e dei filoni minerari nel territorio di Bienno che si collocano negli spazi fragili della montagna, in quelle che sono faglie rivissute e rigenerate, a cui si è dedicato (Nebulosa).
Grandinetti toglie in qualche modo il velo alla complicità tra lo sguardo umano e quello della macchina – «talvolta anche più sensibile, quest’ultima, di quello umano» – e presenta un’opera che più che fisica e realistica, come ci aspetteremmo, diventa abissale, muovendosi tra i poli del passato e del futuro. Lungo quest’asse, che ai suoi estremi – appunto – ha passato e futuro, memoria e desiderio, si muovono anche i Coulture Project: L’installazione è un paesaggio in principio molto arcaico che poi si muove verso la quotidianità – «sono tazze di tutti i giorni quelle che danno forma ai totem rievocando legami ascensionali verso lo spirito», spiegano – per arrivare a una progettazione architettonica, futuristica, di quello che potrebbe essere il futuro. Tra passato e futuro, nel presente «mi piace guardarli», «quante cose hanno visto, quante cose hanno sentito?», «mi sveglio la mattina e guardo fuori dalla finestra, li vedo» sono alcune voci biennesi che risuonano, ancora nella fucina, avvolgendo l’installazione a tre canali (Il coro degli alberi) con cui Barbara Bernardi riflette sul concetto di essere secondo natura, riconoscendo che gli alberi sono metafora dell’umanità e tenendo conto anche della natura umana, che c’è, esiste e determina il nostro approccio al mondo sensibile.
Il percorso in fucina si chiude con i Sentieri straordinari di Michele Gerace. Non si può fare a meno di pensare che c’è mappa e mappa, c’è cartografia applicata al territorio e rappresentazione percepita, ci sono esploratori e artisti: niente, forse, più di una mappa, può apparire reale proprio perché immediata. Gerace però non rivolge lo sguardo esclusivamente all’esterno ma piuttosto attiva i propri sensi verso di sé, mirando a fare chiarezza sulle sue esperienze, percezioni, emozioni, spiritualità e sensazioni fisiche e mentali, adottando un approccio all’orientamento che si basa sul significato tradizionale di mappa ma che lo espande, sviluppandolo lungo strade non convenzionali e complementari – quelle, appunto, del sé, del subconscio, dell’identità, del corpo, dei pensieri, delle memorie e idiosincrasie che interagiscono in ognuno di noi. Nello spazio esterno circostante, Davide Armati, Augusto Daniel Gallo – protagonista con le proprie opere anche nella Fucina Campanaccio in Vicolo Ripa – e Tomaso Vezzoli hanno realizzato con reti metalliche, filo di ferro, cartapesta, teli gessati e tronchi di legno, ispirandosi all’incarnazione mitologica del caos in forma di drago demoniaco, l’installazione Leviathan, raffigurante un essere con cui i tre artisti, in sinergia, hanno voluto esprimere tutte le dinamiche di trasformazione – dal naturale all’artificiale – qualsiasi nuova vita sperimenta.
Camilla Gagliardi, nella cui personalità artistica coesistono scenografia e scultura monumentale, presenta a Bienno, suo paese d’origine per cui «le radici sono fondamentali», l’installazione Natura Umana. Lasciandosi completamente ispirare dall’ambiente, Gagliardi guarda al luogo come un universo parallelo e invita a guardare la sua opera da una certa distanza, affinché i suoi uomini a testa in giù – con esplicito riferimento alla metafora di Aristotele della pianta come uomo a testa in giù – convivano tout court con il borgo sovrastante. Di fronte alle teste/radici cerebrali che «risucchiano – spiega Camilla – la linfa vitale da Bienno», Renato Calaj – protagonista con alcune installazioni site-specific anche nella Fucina Espositiva – presenta Connessioni, un’installazione realizzata attraverso ponteggi e reti da cantiere nella forma di un’esperienza fisica ma anche metafora e invito all’attenzione e all’ascolto, nonché all’accoglienza, del rumore – «a Bienno c’è sempre stato rumore, un rumore di sottofondo, talvolta anche forte, ma cullante» ricorda Cinzia Bontempi – per costruire provvisoriamente e un po’ romanticamente la propria composizione.
Il percorso si arricchisce anche di una mostra mercato, delle performance di Perry Bianchini con Giacomo Filippino (Alchimia di scultura raku), Anna Bonomi e Matilde Stolfa (Scintille), Progetto Molom e Giulia Manella e Isabella Tosi (Radici), e prosegue per tutto il borgo fino alla Casa Valiga, la Casa degli Artisti, con Matteo Casali – Collettivo NOTSPACE – e Hossein Qb che presenta Il libro di Giona, una scultura a forma di pesce che racchiude al suo interno un uomo e che si ispira alla storia biblica di Giona per riflettere sul rapporto uomo e natura.
Lo spirito di Parada Art è uno spirito di comunità, è uno spirito in movimento e senza dubbio ha un carattere emozionale, nel senso di sorprendente trasformativo, e performativo, non per la teatralità della rappresentazione, bensì per il superamento dei confini fisici e temporali del fare artistico in favore di un’azione interpretativa a cui si è tutti, indistintamente chiamati. Proseguirà fino all’1 settembre, poi? Cosa resta? Di certo tutti i reenactment che verranno anno dopo anno dialogando con la documentazione nonché la rappresentazione iconica delle edizioni passate, riattivandone il tempo, lo spazio e la presenza. Del resto, «non c’è mai un addio definitivo. Io dico sempre ci vediamo lungo il sentiero», parola di Michele Gerace.
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