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16
febbraio 2019
Capodimonte è uno sballo
Progetti e iniziative
Il museo napoletano tira fuori dal suo deposito una serie di opere per una storia dell’arte ancora da scrivere, ripudiata dalla “moda” e dalla politica. Che riavvampa con gusto
La mostra “Depositi di Capodimonte. Storie ancora da scrivere”, in esposizione al Museo di Capodimonte di Napoli fino al 15 maggio 2019, è uno sballo, una sfida e una scommessa. Che sia anche un importante avvenimento lo si capiva già dai tanti giornalisti che affollavano la conferenza stampa nella magnifica Sala degli Arazzi, quelli che narrano della battaglia di Pavia del 1525. Di quando Napoli era capitale spagnola e il napoletano Francesco d’Avalos vinceva le truppe di Francesco I, quel re di Francia che aveva pianto il suo amico Leonardo (da Vinci) sul letto di morte. Anche questi arazzi sono stati per un po’ nella polvere di un deposito. Fin quando, nel 1998, non furono restaurati. Ora a Capodimonte, c’è, quale direttore, un altro francese amante dell’arte italiana, Sylvain Bellenger, che ha voluto questa mostra di opere tratte dai depositi del museo.
Già l’apertura di questi depositi è stato un fatto eclatante. Infatti, erano rimasti chiusi anche a lungo e si racconta che un tempo, con il successore del sovrintendente Raffaello Causa, ne fu vietato l’accesso finanche agli studiosi e all’ANISA-Associazione Nazionale Insegnanti Storia dell’Arte, dando adito a sospettosi perché. Ora finalmente sono visitabili. È c’è anche un video di presentazione, caricato su Youtube, in cui un uomo con un grande mazzo di chiavi avanza verso i depositi e li apre, come per liberare le opere, le vite, le storie che vi sono prigioniere. Il 20% di queste opere – e ne sono più di 1200 – costituisce la mostra. La sua preparazione ha coinvolto tutto il personale del museo, dai funzionari, ai restauratori, agli uomini di fatica. Si è lavorato tanto, fino all’ultimo momento. La mattina della conferenza stampa, c’erano ancora delle scope in un angolo e, su un tavolo, i bigliettini delle didascalie che sarebbero stati al proprio posto per l’inaugurazione nel pomeriggio. Nell’aria, grande entusiasmo. Soddisfatti i curatori, Carmine Romano e Maria Tamajo, sorridenti insieme ai loro collaboratori. Come Linda Martino che, vivace, leggera, quasi saltava di gioia. E più leggera era anche Aurora Giglio, la vivacissima presidente di MusiCapodimonte, l’associazione di promozione della musica popolare napoletana, (altra iniziativa osé del direttore Bellenger).
Giuseppe Casciaro, Paesaggio (Napoli da Posillipo)
Ma quello che di straordinario, dirompente, “sballante” c’è in questa mostra intelligente è l’affermazione della libertà di pensiero, che si esprime nell’apparente disordine secondo il quale sono state collocate le opere. Che non seguono il filo di una logica progressiva, per esempio non sono state messe secondo un ordine cronologico del prima e del dopo. Qui si invita il visitatore a uscire dagli schemi già dati, lo si incita all’attenta osservazione della realtà e a usare una logica fondata su di essa, una logica analogica. E gli si suggerisce di lasciarsi guidare dalle suggestioni delle analogie. Che possono essere tante. Qui si sfida il visitatore a trovarle e magari, in base a queste, ad assemblare dei gruppi di opere e scoprirne gli sconosciuti autori. E si può accostare un’opera a un’altra per un’affinità nascosta, per il carattere dei personaggi rappresentati, per la forza dei loro sguardi, per l’espressività di questo o quel sentimento, per la costruzione degli spazi, per l’omogeneità del colore e così via. È una sfida e una scommessa. E può essere un test divertente, che rivela le capacità di ciascun visitatore. Da qui, da queste opere, tante idee, tante vite, tante storie. Ancora tutte da scrivere. I cataloghi, infatti, saranno pubblicati soltanto alla chiusura della mostra, arricchiti dalle osservazioni dei visitatori.
Ma come nascono i depositi dei musei?
A volte allo stesso modo con cui noi abbandoniamo, magari in fondo a un cassone, qualche vestito che ci è venuto in uggia o che non è più di moda ma potrebbe tornarvi e chi lo sa. Così un’opera museale vien messa in deposito non solo per mancanza di spazio, per un cattivo stato di conservazione e in attesa di restauro come gli arazzi d’Avalos ma, soprattutto, per un cambiamento del gusto di un’epoca, ha spiegato il Direttore. E anche, aggiungerei, per motivi politici. Capodimonte è diventato museo nazionale negli anni Cinquanta del Novecento. Molte sculture ottocentesche all’epoca furono messe da parte: la scultura non era più di moda. Perché, mentre la pittura si era evoluta, la scultura era rimasta ancorata ai vecchi schemi. Inoltre, dopo il referendum “monarchia o repubblica?” del ’46, le opere sfacciatamente savoiarde erano state confinate nei depositi. Da cui ora sono stati tirati fuori i busti di un compassato Umberto I e di un Vittorio Emanuele II dalla faccia assatanata. Nella stessa sala, accanto a questi busti, vi sono le sculture eseguite da Leopoldo di Borbone, le quali, per il 1860, dormivano nei depositi: c’è l’Angelo della Carità in gesso, di un dolcissimo sentimentalismo ottocentesco ma incorniciato dal curvo disegno, accentuato in senso astratto, di due grandi ali imponenti.
Annibale Carracci (copia da?), Due giovani che ridono (1584/85 ca?)
C’è, tra le sculture, anche un divertente tacchino perfettamente eseguito. È assurdamente seduto su un porco e attrae lo sguardo per l’originale composizione cui dà luogo. Molti sono i capolavori da scoprire in questa mostra, che vanta preziose porcellane e opere di Battistello Caracciolo, Bernardo Cavallino, Mattia Preti e anche di Luca Giordano che – notizia in anteprima – quest’autunno partirà, insieme a Vincenzo Gemito, per Parigi, dove alloggerà al Musée du Petit Palais.
Molto interesse suscitano anche gli oggetti in mostra portati in Europa dal Capitano James Cook e poi donati al re di Napoli Ferdinando IV da Lord Hamilton, ambasciatore inglese presso la Corte Borbonica. Sono armi e altri oggetti provenienti dall’Oceania, che testimoniano la civiltà e il senso della bellezza e dell’arte di un popolo ritenuto selvaggio. Un popolo allora dignitoso e libero perché era diverso dagli altri ma certo non era diverso da sé. Ammiriamo, tra l’altro, un aggraziato copricapo, dei bracciali e delle cavigliere femminili. Appartenevano a una principessa? Dov’è ora questa principessa che, regalmente, danzava muovendo le piume infilate nei bracciali e nelle cavigliere? Vola leggera nel cielo? Il suo popolo, camuffato dagli abiti occidentali, non esiste più. Nella stessa sala, statuette in terracotta riprendono precisamente le figure di popoli esotici vestiti nei loro abiti tradizionali. Sono riproduzioni perfette ma senz’anima. In occasione della mostra, altre novità: la Flagellazione caravaggesca è circondata da un cornice coeva. Mentre tante lampadine a led, imitando molto bene il brillante luccichio delle candele di un tempo, illuminano la favolosa Sala delle Feste.
E c’è anche un’altra novità: parte da questa mostra il progetto di digitalizzazione delle opere di Capodimonte, con l’uso dell’ultimissima tecnica della Art Camera «Per la quale si potrà distinguere anche il filo della tela di un dipinto. È perfetta più dell’occhio umano», dice il Direttore, entusiasta. Ma c’è chi dice di preferire conoscere l’opera nella sua realtà, sentire il suo magnetismo e di provare a volte il desiderio peccaminoso di toccare la ruvidezza di una tela, la profondità del legno di una tavola dipinta, di accarezzare le curve levigate di un marmo. E considera con raccapriccio la fotografia dell’opera un’astrazione, un suo avatar. Ma «Non vi potrebbe essere un manuale di storia dell’arte senza fotografie e sarebbe bello, ma non è pensabile, vedere tutte le opere d’arte in originale» dice Bellenger. E ha ragione.
Adriana Dragoni