Capri felix. E non solo per vip

di - 27 Luglio 2014
Si arriva nell’isola incantata (scordatevi il mare, semmai d’inverno, d’estate è off limits per la quantità di barche che lo incrociano e lo sporcano) e ci si chiede se una storia che ha tutta l’aria di essere seria, che vuole riportare questo luogo a quella grazia che l’hanno resa famosa in tutto il mondo, sottraendola all’oltraggio del turismo mordi e fuggi, sia vera.
Ricominciamo da capo. A bordo di un aliscafo si arriva a Capri. Confusione, scene d’altri tempi, con i fattorini inviati dall’albergo con il berretto del medesimo e quei  carretti a motore, più piccoli degli “Apetti” che girano in India, che portano su i bagagli mentre ti ritrovi, tuo malgrado, a dar di gomito per assicurarti un posto sulla funicolare. Lo spettacolo inizia: pezzi di Dolomiti che affiorano da un mare azzurrissimo, alberi di limoni, tetti  bianchi e pergolati fioriti, poi gli orti. Su su fino alla Piazzetta. Di mondanità ce ne è meno di un tempo, ma i finti paparazzi non mollano e con vistose macchine fotografiche che ormai non si trovano neanche nei banchi dell’usato a Porta Portese, flashano a tutto spiano come se chiunque fosse una celebrity. Poi, capita l’antifona di “no money no honey”, lasciano la presa. Breve sceneggiata per accalappiare qualche turista, già vittima della sindrome di Stendhal, che ciondola estasiato sulla strada che collega la piazzetta al Quisisana.
Eccolo, il celebre albergo dove le guide turistiche portano i “giornalieri” (i turisti a/r in giornata) per fargli annusare per un istante l’allure d’altri tempi: “qui hanno soggiornato tizio, caio e sempronia” e così via affabulando, ma attenti a tenerli a una distanza di sicurezza con la “terrazza” (il bar all’aperto che dà sulla strada) dove c’è il rischio che i caio e sempronia di oggi stiano prendendo l’aperitivo in quel momento. Prima di arrivare al Quisisana e poi lungo via Le Botteghe e poi via Camerelle è tutto un susseguirsi di vetrine che espongono abiti, borse, scarpe e gioielli tra i più cari del pianeta. Dopo un po’ ci si fa l’occhio e i vari swarowski e i brillanti veri scintillano meno.
Bene, è in questo luogo, per certi versi ancora vicino all’Eden, che un gruppo di imprenditori ha deciso di giocare una scommessa pesante. Basta con i turisti impaccati di soldi ma pacchiani. Basta con i russi, i cinesi prossimi venturi, che non capiranno mai che cosa sono gli spaghetti al pomodoro scuè scuè e altre cose, basta con i vecchi americani zombie dal dollaro facile con accanto mogli che sono monumenti viventi alla chirurgia plastica. E basta anche con la Capri da peggiore cartolina, imbattibile specchietto per allodole turistiche, come se qui non vi avessero soggiornato Marguerite Duras e Maksim Gorki, non avesse avuto casa Curzio Malaparte, non fossero passati Eisenhower, Churchill e pure Lenin, sì pure Lenin. Basta! O quanto meno, mettiamoci un freno. E guardiamo oltre.
Così è nata pochi anni fa la Fondazione Capri. Figuriamoci, l’ennesima fondazione! Che magari si fa bella con i soldi pubblici. No, i soldi sono privati e a metterceli sono proprio quegli albergatori per cui Capri regge la botta del turismo selvaggio del terzo millennio: il proprietario del Quisisana, Gianfranco Morgano, fiero continuatore della tradizione familiare di grandi albergatori (siamo alla terza generazione), il proprietario dell’Anacapri Palace, Tonino Cacace, che ha ereditato dal padre questo gioiello in cima all’unico altro centro urbano dell’isola, trasformandolo in un hotel de charme ma anche in una “casa d’arte”, insieme ad altri imprenditori che vogliono far rivivere all’isola una stagione di civiltà che negli ultimi decenni è andata un po’ perduta.
Qual è l’asset strategico (direbbero i sociologi) su cui puntare, che cosa, a farla semplice, può fare la differenza? La cultura, come sanno bene proprio gli imprenditori più avveduti. Arte, quindi, presentazioni di libri, incontri, festival? Anche, ma non solo. Perché l’occhio non è solo rivolto al pubblico, al turismo per intenderci, che magari preferisce il talk con uno scrittore piuttosto che il fracasso dell’ennesimo night dove chi balla sui tavoli sta a stipendio del proprietario. L’obiettivo sono anzitutto i capresi. E per scardinare qualcosa che è penetrato nella testa della gente che a Capri ci è nata e ci vive e cioè che l’importante è fare i soldi e farli in fretta, ci vuole una cura radicale.

Travelogue è un progetto, curato da Arianna Rosica, che chiama alcuni artisti, non necessariamente giovani – ci sono stati anche Sandro Chia, Ettore Spalletti e quest’anno ci è arrivato Gianfranco Baruchello – per passare una settimana nell’isola lavorando con i ragazzi della scuole: tre giorni nella scuola media di Capri e altri tre giorni in quella di Anacapri. Un workshop, insomma, ma più che altro l’opportunità data ai ragazzi dell’isola di intravedere un modo diverso di ragionare, di guardare le cose e di stare al mondo. Forse in sei giorni, tanto dura la permanenza degli artisti, non avverrà il miracolo, ma la risposta dei ragazzi è sconfinatamente entusiasta, fiera, appassionata. A conferma, semmai ce ne fosse bisogno, che se alla scuola si dà qualcosa, molto viene in cambio e che, argomento non banale, l’arte contemporanea non è per addetti ai lavori, ma è molto più comprensibile e condivisibile di quanto si pensi.
Quest’anno per Travelogue, oltre Baruchello, sono arrivati Anna Franceschini, Lorenzo Scotto di Luzio, Paolo Gonzato, Paolo Canevari e Igor Muroni. E prima ancora erano sbarcati, tra gli altri, Francesco Jodice, Marcella Vanzo, Ra Di Martino e Diego Perrone. L’accoglienza dei ragazzi, in un posto che spesso somiglia a un’unica via Condotti e via Montenapoleone messe insieme e dove a comandare sembra essere solo il dio denaro, è stata ed è sempre molto calda.

Poi, visto che Capri vive di turismo di cui la Fondazione vorrebbe incrementare la qualità, c’è l’offerta espositiva. La location è da urlo: la Certosa di San Giacomo, complesso monumentale del Quattrocento incastonato in quelle rocce arrivate non si sa come dalle Dolomiti e spalancato sul mare. Quest’anno con la mostra di Giovanni Gastel “Gente di Capri” (fino al 7/9), commissionata come tutte le altre dalla Fondazione e curata da Denis Curti, si è voluto omaggiare la gente che l’isola la vive tutto l’anno: Pasquale che fa il macellaio ma che suona la tromba, Paolo che guida un taxi rosso fiamma, Tina che nel suo negozio tira fuori ancora delicati merletti, Lena, casalinga tostissima, Mario che fa il pescatore ma anche il cantante e tanti altri.
Un progetto, quindi, che vuole entrare nel vivo del tessuto dell’isola, facendo a meno di sofisticate riflessioni su come restituirne oggi un’immagine non stereotipata, per raccontarla attraverso i volti e i vissuti della sua gente.
La scommessa di fotografare Capri con un obiettivo contemporaneo che non immortali i soliti (stupendi, ma appunto soliti) Faraglioni e Archi naturali, da quest’anno è esportata in alcune parti del mondo dove il brand Capri non solo è forte (lo è ovunque), come Baku e Johannesburg, ma che hanno elementi di continuità con l’isola, colme le Bermuda, dove una folta schiera di espatriati capresi ha messo su una fiorente economia nell’industria alberghiera.
Nelle passate edizioni la posta in gioco era più ambiziosa, anche se molto in salita. Perché Capri è un po’ come Venezia, Roma, New York: celebrata fino allo stucchevole da foto e set cinematografici, difficilissima da raccontare evitando di essere ovvi, per cui o si fa un capolavoro, tipo New York stories, La Dolce Vita, Vacanze romane o (via, mettiamocela) la Grande Bellezza, oppure facilmente si fa un flop. Mimmo Jodice, Herbert Lizt (di cui sono state tirate fuori immagini d’epoca), Maurizio Galimberti, Ferdinando Scianna, Irene Kung, Francesco Jodice e Olivo Barbieri, i fotografi che hanno partecipato alle cinque edizioni precedenti, non hanno fatto né flop né forse capolavori, ma una ricerca attenta per non cadere nel banale, raccontando l’isola Capri con uno sguardo diverso.
E questo per un posto che sembra essere fermo nel tempo, che anzi i turisti al pascolo e molti capresi vorrebbero tale per confermare gli uni gli stereotipi e le abitudini visive e gli altri i profitti su questi, non  è poco. E va incoraggiato.

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