Cè vita alla Sandretto

di - 30 Aprile 2017
Ancora pochi giorni per ammirare “Life World”, ultimo progetto della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, quale ricca narrazione fotografica proveniente dalla collezione di Isabel e Agustín Coppel. L’esposizione a cura di Tanya Barson, curator CIAC e head curator al MACBA di Barcellona, con la collaborazione di Mireya Escalante direttrice CIAC, e con il contributo di Irene Calderoni, curator fondazione Sandretto, è basata sulla concezione filosofica di Vilém Flusser, e si dipana attraverso tre sezioni tematiche: mondo sociale, mondo esteriore e mondo interiore, a loro volta delimitate da una sezione perimetrale, quella della fotografia come oggetto post industriale.
Da un punto di vista curatoriale, Tanya Barson, ignora la categorizzazione cronologica a favore di una tematizzazione filosofico esistenziale in cui mescola grandi autori del passato e nuove leve, accostando vocazione internazionale a una forte presenza ispanica.

Nella prima sezione, “Mondo sociale” ovvero l’essere nel mondo, si intuisce all’istante che sarà necessario imbattersi in una folta gamma di pratiche opposte, strutture sequenziali allegoriche, immagini raffiguranti storie e contesti differenti. Artisti come Philip Lorca di Corcia, Thomas Struth, Doug Aitken, si interrogano sulle infinite possibilità di raccontare la vita reale e i suoi protagonisti, l’uomo e il suo essere nel mondo. Artisti di origine ispanica guardano alla fotografia come strumento di indagine sociale, antropologica e autobiografica: Graciela Iturbide, Mariana Yampolsky e Ana Mendieta ne sono un chiaro esempio. Di passione febbrile per il suo paese, di certo mai contraccambiata, sono le opere di Shirin Neshat: figure iconiche, baluardo di sfida e di libertà espressiva su cui aleggia un’aura malinconica che rifugge da una perseverante cultura oscurantista. La stessa intensità e verità linguistica è posta nei ritratti di Diane Arbus, Larry Clark, Bill Owens, Helen Levitt e Walker Evans; lo stesso vale per i ritratti di Rineke Dijkstra; a seguire una serie di figure archetipe e categorie di mestieranti che vanno dal singolo individuo di August Sander e Irving Penn alla moltitudine di Tuomo Manninen. L’associazione estetica tra formati e materiali differenti, combinati spesso in cluster fotografici che ne esaltano in egual modo l’autenticità e la variegata espressività dei linguaggi, è sicuramente una scelta espositiva che punta sull’eterogeneità del messaggio artistico, facendo leva su quello che Roland Barthes definiva il contenuto “polisemico” delle immagini. Non a caso, le teorie di Barthes seppur mai esplicitamente citato, hanno influenzato non poco la visione Flusser, soprattutto dal punto di vista della plurima interpretazione del significato delle immagini stesse.

Nella sezione “Mondo esteriore”, crocevia di luoghi e visioni architettoniche, affiora a dismisura l’aspetto fenomenologico esistenziale, quale base teoretica di una mostra che vuole mettere in relazione l’uomo con la realtà che lo circonda e la manifestazione di tutti i suoi fenomeni.
I criteri stilistici capaci di descrivere il mondo intorno a noi sono presenti nel lavoro di Berenice Abbott, nella descrizione di una New York degli anni trenta, nello sviluppo delle sue aree commerciali e nei suoi magazzini. Nel lavoro di Bernd & Hilla Becher, cultori di una pratica fotografica che documenta la fisicità dell’architettura industriale, inserendo le immagini all’interno di griglie e fissando i dettagli di edifici che loro stessi hanno denominato “strutture anonime”.
La stessa influenza documentale è presente nelle opere di Zoe Leonard: con scatti provenienti dalla serie Analogue, Leonard mostra gli effetti della globalizzazione e dei progetti di pianificazione urbana su alcune attività commerciali. Il risultato illustra vetrine opache e serrande abbassate, dapprima sul territorio newyorchese poi nel sud del mondo. Se cerchiamo l’America più profonda la possiamo trovare negli scatti di Stephen Shore e William Eggleston: tempi di esposizione lunghissimi, spazi aperti, oggetti e colori saturi. Simmetriche geografie urbane e elementi architettonici, sono parte fondante delle opere di Dan Graham e Candida Höfer, intanto che VALIE EXPORT e Bas Jan Ader adattano il loro corpo allo spazio urbano e naturale, che diviene congegno e metafora del loro vissuto. Irving Penn raggiunge perfetti equilibri rappresentativi in cui realtà e metafisica possono coesistere senza sfiorarsi mai. L’opera, una natura morta della serie dal 1979 al 1980, strizza l’occhio alle composizioni morandiane, sintesi egregia di carta e negativo, viene impressa su una stampa al platino rettangolare che le dona una nitidezza atemporale, per una realizzazione tecnica effettuata con un particolare tipo di camera: «la macchina da banchetti».

Alcune delle opere presenti in questa sezione sembrano rifarsi alla psicologia dell’arte di Wölfflin, alle possibili influenze che possono avere le forme architettoniche sull’uomo; infatti, le immagini fotografiche non fanno altro che rappresentare strutture analoghe a stili architettonici sebbene formate da materiali inusuali e in piccola scala. Echi di Bauhaus nella foto scultura di Edmund Collein, di blocchi geometrici che si sviluppano in altezza creando moduli residenziali per le nuove esigenze abitative; piccoli plastici composti da pasta e materiali organici ispirati all’architettura brasiliana per Rivane Neueschwander, addirittura Damián Ortega utilizza delle tortillas per costruire un sistema architettonico modulare modernista. Sotto la coltre formalistica delle opere di Peter Fischli & David Weiss, Melanie Smith, Ed Ruscha, Thomas Struth, Enrique Metinides, si celano i concetti di equilibrio, tempo, entropia, vuoto e implosione. Di notevole interesse le opere del cubano Carlos Garaicoa, artista che si distingue per la particolarità di immagini stampate su superfici ossee in cui le rovine raffigurate aderiscono ai piani fossili. L’ultima sezione, il “Mondo interiore”, si manifesta come una dimensione effimera, fatta di volti ricolmi di un magnetico spleen metropolitano, di orizzonti panteistici e brillanti suggestioni. Ancora una volta Philip Lorca diCorcia fa parlare di sé con la famosa serie Heads, intervento che ha scatenato un putiferio perché situato nella terra di mezzo tra privacy violata, artefatto e crudo realismo. L’autore ritrae i passanti senza il loro consenso: un primo piano realizzato con il posizionamento di una potente luce stroboscopica, un flash che dall’alto immortala i passanti sulle le strade di New York, rubando così l’attimo della loro essenza più intima, per un risultato compositivo che scava a fondo nel soggetto ritratto, una rappresentazione che per forza di cose, va al di là di un profilo plastico poiché manifesta il suo alto corrispettivo astratto.

Così affini tra personalità, alienazione e apparenza le opere di Ed van der Elsken, Nan Goldin, Tracey Emin e Ana Mendieta arricchiscono ulteriormente il percorso espositivo, mentre finestre o forme arcadiche illustrano lo spazio magico di Anna Gaskell e Annika von Hausswolff. Infine Bill Henson incanta con vicende melodrammatiche su sfondi urbani avvolgenti, intanto che la luce lunare dà forma al disagio giovanile e rischiara l’incarnato dei corpi. Questa visione alquanto caleidoscopica dell’arte fotografica non insegue alcuna seduzione estetica, bensì esalta il ruolo dell’artista, il suo intervento rapportato alla macchina. Per Flusser l’intervento dell’artista diventa fondante al punto da trasferire le sue intenzioni creative alla macchina, intromettendosi tra l’apparato e la realtà. Un’azione che influisce sulla riproduzione delle informazioni sui vari supporti fotografici, sulla complessità dei significati e delle relative letture. La sezione perimetrale ovvero la fotografia come oggetto post industriale, è il punto focale del pensiero di Flusser, un oggetto che segna un vero e proprio spartiacque tra la formazione di una coscienza storica e vale a dire diacronica, al passaggio e sviluppo di una coscienza sincronica e primitiva, purtroppo anacronistica. Le suddette teorie trovano il loro caposaldo nel passaggio dall’immagina tecnica analogica all’immagine tecnica digitale. Flusser ne condanna la sua diffusione, la sue rappresentazioni oggettive, l’omologazione del linguaggio nonché l’uso di una forma estetica che sa di dipendenza. E qui che fa riferimento alla filosofia di Heidegger, in particolare Essere e Tempo e ai concetti di temporalità, autentico – inautentico, di un primo esistenzialismo, al rapporto tra l’uomo e il predominio della tecnica.
Questo progetto espositivo, correlato a un’interessante pubblicazione saggistica, lascia grande spazio all’interpretazione del fruitore e suscita ancora una volta una riflessione sul ruolo dell’immagine fotografica nel ventunesimo secolo.
Rino Terracciano
In home page: Nan Goldin, Valerie crying, Paris, 2001, Cibachrome print, 76.2 x 102 cm/30.0 x 40.0 in, Courtesy of Matthew Marks Gallery, Los Angeles © Nan Goldin
Sopra: Thomas Struth, Sixth Avenue at 50th Street New York (Midtown),  1978, Gelatin silver print, 30.8 x 40.3cm/12.1 x 15.9 in © Thomas Struth
                                                                    

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