Che cosa c’entra la morte?

di - 30 Novembre 2012
«Non so perché, ma penso alla morte tutti i giorni, forse perché vivo a Manhattan, leggo i giornali e penso possa accadere in qualsiasi momento. È affascinante il fatto di non essere preparati a questo  avvenimento». Sono parole di Cindy Sherman, usate ormai diverso tempo fa, quando negli anni Ottanta l’artista aveva realizzato una serie di fotografie intitolate Disasters, dove il corpo era rappresentato in “sezione”, ovvero ne venivano presentate alcune parti, pezzi di carne reduci di un disastro. Un corpo freddo, mortifero e plastificato. Andy Warhol, altro newyorkese d’adozione, dedica alla morte il capitolo più breve della sua “filosofia”. «Mi spiace sentirne parlare. Pensavo che tutto fosse magico e che non sarebbe mai successo. Non ci credo, perché non ci sei più per sapere che è accaduto. Non posso dire nulla perché non sono ancora pronto», scrive il re del Pop, sopravvissuto alle pallottole di Valerie Solanas e morto di banali complicazioni per un’appendicite. Non c’è un pensiero “di moda” intorno alla morte, piuttosto c’è la moda diffusa nel volerla ripudiare, insabbiare, seppellire. Warhol lo sapeva bene e non a caso tentò di esorcizzarla con la sua serie di “Disastri”: automobili accartocciate che ora fanno il pieno in asta, vittime di incidenti aerei, morti avvenute a causa di alimenti adulterati, come nel caso della serie Tunafish disaster.
Che l’arte abbia sempre fatto i conti con  la morte, in modalità e toni differenti, è risaputo, anche se forse sarebbe più giusto dire che l’arte ha sempre fatto i conti con la volontà di annullare la finitudine introducendo nell’opera l’immortalità del pensiero. Lo aveva fatto De Dominicis, estremizzando i suoi soggetti pittorici, rendendoli talmente atemporali da farli risultare modelli futuribili e allo stesso tempo preistorici, avulsi da qualsiasi indicazione di epoca. All’inizio del nuovo millennio poi arrivò Paul Virilio e la sua “dromologia”, riassumibile nella corsa forsennata contro il tempo, così come Baudrillard vide nella catastrofe delle Twin Towers l’atto performativo supremo, il compimento dell’epoca contemporanea e della sua volontà di spingersi al limite, e oltre, nella fantascienza, nell’impossibile e nella realtà più reale del reale. Ma siamo sempre punto e a capo. La morte, che sia per mano di ideologie o che sopraggiunga per gli effetti del proprio tempo, resta il mistero più affascinante e inquietante nel racconto e nel pensiero dei vivi.
Ma cos’è la morte? Cosa ci insegna il lutto e il distacco? Come possiamo circoscriverla, dove possibile? L’impressione è sempre quella che sfugga qualcosa, di essere di fronte a un logos incompleto, per il quale è impossibile parlare e che rimanda a quel famoso balbettio di fronte alla verità, narrato da Platone. Un mistero che, grazie all’arte, si può ancora tentare di indagare, mentre nel resto delle attività umane è quasi stato spazzato via, rimosso, in attesa di avvampare.
Emilio Fantin, Luigi Negro, Giancarlo Norese, Cesare Pietroiusti e Luigi Presicce con il tema della morte si sono spesso confrontati, e sabato 1 dicembre il quintetto approda a San Cesario di Lecce, dove si metterà in scena la terza edizione de “La festa dei vivi (che riflettono sulla morte)”, nello spazio di Lu Cafauso. Un’azione collettiva che, con la creazione di un affresco, renderà omaggio dall’alba al tramonto a tutti i morti e a tutti i vivi che hanno raccolto le proprie parole intorno all’ultimo atto e intorno ai propri cari scomparsi, inviandole al gruppo di artisti.
«In un modo o nell’altro tutti cerchiamo di stabilire un contatto con i nostri cari, a volte considerando il nostro comune destino, riflettendo sulla morte in generale. In occasione de “La Festa dei Vivi (che riflettono sulla morte)” abbiamo proposto un’azione plurale, che potevano fare tutti, in luoghi diversi, ma nello stesso momento. Ogni partecipante ha incontrato i propri cari, gli amici o i parenti morti, entrando in contatto con loro attraverso un rituale, un gesto, un pensiero. La consapevolezza che una pluralità di persone, nello stesso momento, fosse in dialogo con una moltitudine di altre persone scomparse, ha potuto creare uno spazio comune tra la vita e la morte, tra i defunti e noi – i vivi – che condividiamo lo stesso destino. A tutti i partecipanti abbiamo chiesto di inviare, a seguito dell’incontro, una parola o una breve frase che lo sintetizzasse, lo rappresentasse o comunque gli desse un senso», affermano gli artisti. Un resoconto minimo di un incontro intimo, un pensiero forse non sulla morte ma sull’esistenza. Exibart ha intervistato Fantin, Negro, Pietroiusti, Norese e Presicce (che rispondono collettivamente, come collettivo è il rito cui hanno dato luogo), cercando di capire di più i motivi di questo progetto affascinante, da vivere in silenzio.
Cos’è precisamente Lu Cafausu e cosa si metterà in atto il 1° dicembre?
«Lu Cafausu è un residuo architettonico di un’antica villa completamente scomparsa, probabilmente un gazebo usato per condividere un caffè (coffee house/ cafausu), a San Cesario di Lecce. È un edificio improbabile e precario, portatore di un senso inafferrabile, che per questo è diventato fonte d’ispirazione per un gruppo di artisti. Un “luogo immaginario che esiste davvero”, un simbolo del nostro tempo. Il primo dicembre scriveremo sulle pareti interne de “Lu Cafausu”, usando l’antica tecnica dell’affresco, tutte le parole e le frasi che abbiamo ricevuto da centinaia di partecipanti ad una grande azione collettiva che si è svolta il 2 novembre, in occasione della terza edizione della “Festa dei Vivi (che riflettono sulla morte)” e che consisteva nel mettersi in contatto, individualmente ma tutti nello stesso momento, con una persona scomparsa».
Quindi è necessaria un’azione collettiva per dialogare con la morte?
«Ogni incontro era ovviamente intimo e singolare, ma la consapevolezza che una pluralità di persone, nello stesso momento, fosse in dialogo con una moltitudine di altre persone scomparse, ha potuto creare uno spazio comune tra la vita e la morte, tra i defunti e noi – i vivi – che condividiamo un destino di finitudine».
Che senso ha, la morte, nel 2012? Che cosa vuole restituire ai vivi “La Festa”?
«La consapevolezza di un destino comune a tutti, la fondamentale importanza di una riflessione su tale destino, che è accuratamente evitata in una società dove domina, con il senso spettacolarizzato di onnipotenza, la convinzione che con il denaro si possa ottenere tutto, anche l’eterna giovinezza. Una società che è resa fragilissima dalla rimozione e proprio dall’assenza di parole sulla morte».
L’affresco collettivo con le parole raccolte in che ottica si pone con la società? È in qualche modo un’opera devozionale? Resterà in permanenza?
«No, casomai è un’opera poetica. Come in una poesia, le parole riportate da tante persone e relative ai loro incontri – stati d’animo, riflessioni, voci – si accordano in maniera tanto sorprendente quanto semplice, offrendosi a possibili costruzioni di senso e a viaggi dell’immaginario. Difficile dire se l’affresco resisterà al tempo. Lu Cafausu è un luogo, come dicevamo, precario, che da un giorno all’altro potrebbe cadere sbriciolato per una manovra sbagliata di un camion o di un SUV. Ma proprio nella sua precarietà sta il suo senso, e la sua centralità rispetto alla “Festa dei vivi” e alla riflessione sulla morte. Ogni tentativo di proteggerlo musealizzandolo, pur se mosso dalle migliori intenzioni, rischierebbe di congelare e neutralizzare le sue contraddizioni, il suo fascino, e alla fine toglierebbe a noi la possibilità di usarlo».
Ci sono state parole che avete visto raccolte più di altre?
«Forse la parola “tu”».

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