Che forma ha l’attesa?

di - 21 Luglio 2016
La pietra, il mare, la pelle, il marmo, il momento, l’immobilità, affiorano dalla superficie dell’immagine, scivolano dalle partizioni dello spazio e del tempo, dalle categorie di consistenza e forma, delineando un unico flusso di coscienza e di rappresentazione. Nelle fotografie di Mimmo Jodice, i paesaggi urbani e gli scorci naturalistici, i volti scolpiti delle archeologie e le membra di solida carne, entrano in relazione serrata, fluiscono l’uno nella struttura percettiva dell’altro. “Attesa. 1960-2016”, l’ampia retrospettiva che il Madre ha dedicato all’artista nato a Napoli nel 1934, racconta l’anatomia dello sguardo, come una successione di punti di vista sul profilo sfumato che le cose assumono esistendo. Un itinerario di sospensione della distanza tra le sensazioni e di approfondimento critico sulla metodologia di un maestro dell’osservazione, dalle prime sperimentazioni degli anni ‘60, «quando iniziai solo con un ingranditore», alle ultime ricerche ancora in evoluzione.
La mostra – curata dal direttore Andrea Viliani e organizzata insieme a Scabec, società di servizi nel settore dei beni culturali che, da giugno 2016, è tornata alla formula in house della Regione Campania – figura come una tappa obbligata lungo il percorso intrapreso dal museo di via Settembrini, considerando il ruolo, delineatosi in questi ultimi anni, di centro di aggregazione di storie emergenti dal rapporto con il territorio. Dopo un 2015 intenso, tra Elaine Sturtevant, Mark Leckey, Daniel Buren e Boris Mikhailov, la nuova stagione si apre con un po’ di ritardo, dovuto agli inevitabili smottamenti seguiti al cambio della giunta regionale, proponendo una retrospettiva esauriente, ottimamente allestita nel dialogo con gli ambienti espostivi, con più di 100 opere disposte in un ordine in cui cronologie e temi si compenetrano. E che, insieme alla personale di Camille Henrot, a cura di Cloé Perrone e in collaborazione con la Fondazione Memmo, va a completare l’offerta museale estiva e autunnale.

Nel punto focale dell’inquadratura di Jodice, il reale e il fantastico, la stabilità e la porosità, sono particolari convergenti, la visione attenua il suo ritmo costruttivo e si blocca un attimo prima di realizzarsi come immagine. Una solida scansione architettonica appare sospesa nella prospettiva, un reperto archeologico potrebbe provenire da un’epoca futura, in cui non esistono più gli uomini ma solo i loro simulacri. Nel corso degli anni, i soggetti e gli stili si sono diversificati ma l’atmosfera è rimasta coerente, quell’afflato di mistero romantico e quotidiano, si respira sia nei primi tentativi sperimentali, quando Jodice interveniva sulla costruzione della fotografia e sui negativi, tagliando e inserendo elementi estranei, sia nelle serie più recenti, in cui la pulizia formale dell’immagine è bilanciata da un vago sentore di inquietudine o di aspettativa.
Jodice iniziò la sua ricerca nella Napoli dei ‘60, gli indimenticabili anni di Lucio Amelio, dei Trisorio e degli altri grandi galleristi, del fervore culturale e della ribalta nell’arte internazionale. «Lessi su un dizionario che l’obbiettivo della fotografia era riprodurre fedelmente la realtà, così decisi di inserire la realtà nelle foto», racconta Jodice, indicando le sue prime opere e ricordando i retroscena. Il quotidiano è stata la prima sostanza a entrare nel campo d’osservazione, sotto forma di una teatralità interpretata come linguaggio immediato. Tra le sagome delle persone assembrate nei cortei del partito comunista, riunite nelle affollate feste di piazza e nelle processioni sacre, si delinea il clima di esaltazione per il potere, tanto temporale quanto spirituale, del corpo collettivo, una fiducia nel concetto di gruppo, massa e partito che caratterizzava le dinamiche sociali tra gli anni Sessanta e i Settanta. Quelle immagini euforicamente caotiche, raccolte in un video proiettato su una parete dell’ampia sala Re_Pubblica, sembrano distanti dal rigore compositivo delle serie successive.

Per Jodice, estetica ed etica, attrazione e impegno, sono coordinate che coincidono nei processi di conoscenza: «La cronaca è messa in scena, l’immagine è uno strumento cognitivo», nelle parole di Viliani. Questo stretto dialogo con il reale viene approfondito negli anni Settanta, in opere come Frammenti con figura, del 1968, Autoritratto con Emilio Notte, del 1972, e Taglio e Bruciatura, entrambe del 1978. L’estensione della fotografia e la consistenza della realtà collidono letteralmente, instaurando un rapporto problematico, un contesto fisico di indagine nel quale ciò che si vede si può anche strappare, riaccostare e assemblare in nuove, stridenti, combinazioni.

Messe bene in evidenza le premesse, anche grazie a un particolare allestimento che ricrea una sorta di zona ovattata, il percorso espositivo si snoda in un intreccio di tempi e argomenti, per esplicitare i ritorni e le fughe, quelle simmetrie di bianchi e neri diventate firma d’autore. Le immagini si allineano su una coerenza percettiva, su una corrispondenza di corpi, ambientazioni e apparenze che va oltre la rappresentazione, per scoprire l’essenza oltre il velo della realtà. In Transiti, una serie del 2008 esposta per la prima volta al Museo di Capodimonte, le rughe che scavano i volti degli uomini e delle donne della Napoli contemporanea esprimono la stessa profondità di quelle dei personaggi ritratti dai grandi artisti del ‘600, da Caravaggio a Ribera, da Artemisia Gentileschi a Luca Giordano. Una semiologia dei gesti e dei moti d’animo che si ritrova nella ruvidità del marmo e della pietra del Guerriero da Ercolano (1993), degli Atleti della Villa dei Papiri (1986) e del Compagno di Ulisse (1992), modellati in epoche lontane e così prossimi al nostro tempo. L’umanità è la coscienza latente, sottesa a tutte le opere, l’atomo indivisibile che rende le sensazioni immediatamente comunicabili. Lunghe file di sedie vuote in un teatro, facciate squadrate di edifici ritmate dalle successione delle finestre, luci e ombre che si incontrano su un pavimento, scenografie in cui l’uomo è acuta assenza, protagonista perennemente invocato, come in una eterna Attesa, un progetto iniziato negli anni ‘80 e non ancora terminato. «Vado in cerca di un qualcosa da definire, che aspetta di finire, cercando di cogliere l’attesa», dice Jodice.
Mario Francesco Simeone

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