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11
maggio 2015
Che mausoleo quel MAXXI!
Progetti e iniziative
L'arte della fuga secondo Favaretto: 18 cenotafi invadono il museo. Celebrano romantici, avventurieri, geni, eterni secondi e spiriti inquieti. Che a un certo punto sono scomparsi
Al MAXXI apre una mostra speciale: niente vestiti, niente sapori esotici, niente prodotti importati da fuori (niente cibo, non lo dico perché tra poco sbarcherà “FOOD” e il MAXXI potrebbe assomigliare per qualche mese a un autogrill). Invece, incredibilmente, per la prima volta si è puntato su un’artista autoctona, giovane ma non più di primo pelo – ha già tra le tacche del suo fucile Ps1 di New York e Documenta, tanto per dire – e presente nella collezione del museo, Lara Favaretto, al momento (lo aggiungiamo per dovere di cronaca) in mostra anche alla galleria Franco Noero di Torimo. Con la commissione di “Good Luck” il MAXXI le ha affidato la Galleria n. 4, per riunire insieme 18 su 20 dei suoi cenotafi, alcuni realizzati sul posto.
Ma andiamo per ordine. Tutto inizia diversi anni fa, quando la Favaretto si inizia a interessare a personaggi scomparsi. No, non c’entra Chi l’ha visto e nemmeno i desaparecidos argentini. Si tratta invece di personaggi pubblici che a un punto della loro vita, nolenti o volenti, sono scomparsi fisicamente oppure socialmente. Contribuendo anche a creare, o alimentare, un loro mito personale. La Favaretto dunque ha iniziato a raccogliere oggetti, documenti, costruendo un ricco archivio: da qui i cenotafi, dedicati ognuno a uno dei 20 personaggi, e prima di essi il paludoso Momentary Monument esposto alla 53a Biennale di Venezia nel 2009 – in quel caso era una finta palude a svolgere la funzione di cenotafio – e un libro d’artista, esposto in mostra.
Ecco dunque che il cenotafio, monumento sepolcrale vuoto del corpo della persona defunta, ma in cui resta potente la funzione commemorativa, è diventato il mezzo più idoneo a omaggiare gli scomparsi. Nonché a innescare riflessioni sul monumento e sul nostro rapporto con la memoria, e su quanto essa diventi retorica e simbolica, al di là dell’effettiva presenza delle spoglie fisiche.
I cenotafi favarettiani sono imponenti, e combinano in vario modo lastre di ottone specchiato, legno, terra e casse di ferro sigillate che – si dice – contengono oggetti e documenti inerenti al personaggio commemorato. Lo spazio stesso della galleria 4, mai stato così luminoso e arieggiato, diventa esso stesso silenzioso e metafisico mausoleo. E nonostante il suo carattere spazialmente borioso e prepotente, la galleria riesce a collaborare piuttosto bene con le sculture.
L’impatto generale è dunque esteticamente molto forte, e le opere incutono una certa soggezione.
D’altra parte, l’artista gioca con materiali fortemente evocativi, strettamente connessi con la nostra cultura funeraria: il legno e il metallo delle bare e delle urne, la terra.
E poi ovviamente la memoria, le tracce, i residui nascosti nelle casse in ferro – sospesi per noi visitatori tra realtà e immaginazione, non potendone verificare l’effettiva esistenza – sono elementi che creano con facilità un’atmosfera sacrale e misteriosa, estremamente suggestiva.
Inoltre, presupponendo che il fruitore non sia pigro e abbia voglia di documentarsi, hanno il loro importante peso emozionale anche le storie dei personaggi, assolutamente anomali e affascinanti, per i quali non si può che provare una certa simpatia: ci sono romantici, avventurieri, spiriti inquieti ma allo stesso tempo brillanti, geni, sognatori, eterni secondi, che a un certo punto scompaiono, si nascondono o fuggono, forse perché incompatibili con le ordinarie e normalizzanti (e a volte apparentemente prive di poesia) dinamiche della società o della vita. O forse in un vano tentativo di disinnescare la propria finitudine, di restare possibilità aperte, senza un compimento finale.
Così abbiamo l’esploratore Percy Fawcett sparito in cerca dell’El Dorado, l’eccentrico e sarcastico giornalista Ambrose Bierce, scomparso nel Messico rivoluzionario di Pancho Villa, il pugile poeta dada Arthur Cravan, il dolcissimo performer Jan Bas Ader, il fisico scacchista Ettore Majorana, che hanno dissimulato la loro fine in una dimensione senza tempo né luogo precisi. Oppure chi ha scelto di ritirarsi dalla società, come lo scrittore horror Howard Phillips Lovecraft, o lo scrittore ancora vivente (non oso immaginare gli scongiuri se sapesse del cenotafio) Thomas Pynchon, o del geologo László Tóth, in un certo senso perdutosi nella sua pazzia – è quello che nel 1972 prese a martellate la Pietà di Michelangelo credendo di essere Cristo, ricordate? – dopo una prima parte della vita assolutamente ordinaria. Solo per nominarne alcuni, ma ce ne sono molti altri.
E non si tratta di falliti – anzi a molti di essi sorrise la fama ancora viventi – pensate allo scacchista Bobby Fischer. Magari sfortunati, qualche volta, se prendiamo il visionario scienziato Nikola Tesla, sempre un passo indietro a Guglielmo Marconi e Thomas Edison sebbene, a mio avviso, nettamente più geniale.
Al di là di queste suggestioni, che lavorano dentro di noi a prescindere dalla bravura dell’artista, le sculture si pongono stilisticamente in un punto ideale a metà tra Pistoletto e la scultura minimalista. In qualche caso, come nel cubo nudo di terra di Majorana, l’artista cita sé stessa (i cubi di coriandoli); in altri casi un intervento organico inquina la purezza minimalista (vedi l’accartocciamento dell’omaggio a Lovecraft o la ferita slabbrata di quello a Bierce o l’ossidazione di Tesla). Mentre il risultato migliore si ha forse con il cenotafio di Donald Crowhurst, il velista scomparso vicino alle Bermude, in cui la cassa di metallo racchiusa all’interno è visibile solo sbirciando da alcune fessure verticali della scultura.
Ma la forma di ogni cenotafio è connessa con la storia del personaggio? Almeno in alcuni casi sembrerebbe di sì. Mi piace pensare che la lastra di ottone secante il cenotafio della aviatrice Amelia Earhart rimandi alla lastra di lamiera dell’aereo ritrovata vicino alla zona della sua scomparsa; o che il cenotafio di Jean-Albert Dadas sia calpestabile proprio per ricordare l’impulso incontrollabile a camminare provocato dalla sua dromomania.
Le 18 sculture – altre due, Federico Caffè e Grant Thomas Hadwin, già sono state acquistate in collezioni private – sono destinate ad una inesorabile diaspora: si perderanno per musei, gallerie e case di collezionisti, dando origine a una nuova, ideale mappatura degli scomparsi.
«La fuga nella vita, chi lo sa, che non sia proprio lei la quinta essenza», cantava Paolo Conte, in Fuga all’Inglese. E chissà che non avesse ragione.