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02
aprile 2016
Chi ha paura della linea fluida?
Progetti e iniziative
Da viale Alemagna all'HangarBicocca, ecco un primo tour nella XX1 Triennale di Milano. Partendo dal riallestimento del Design Museum, pensando all'altra metà del progetto
Oltre seicento pezzi di artiste, artigiane, architetti, arredatrici, configurano forme dell’abitare innovative e poetiche. Ma non sono solo scarpe, bijoux, stoviglie, sedie, tavoli, lampade o altri manufatti di qualità originali e sorprendenti, diversi, dalla leggerezza diffusa e contagiosa, tipica del “fare mondi” al femminile. Sono oggetti riconoscibili del quotidiano che declinano una creatività più morbida dalla linea curva, accogliente, gioiosa, con l’obiettivo di mettere in discussione le categorie di genere. Il Design nel XIX e XX secolo ha escluso, rimosso la creatività organicista femminile, considerata forse troppo “uterina” per essere modernista secondo i patriarchi.
Cambia la storia del design la mostra “W. Women in Italian Design” a cura di Silvana Annichiarico (fino al 19 febbraio 2017), per la nona edizione del Triennale Design Museum, che quest’anno si pone una domanda non retorica: Che cosa è il design secondo l’altra metà della progettazione?, ideata per l’attesa XX1 Esposizione Internazionale. Il percorso espositivo firmato da Margherita Palli è ospitato al primo piano della Triennale, capolavoro modernista di Giovanni Muzio: l’idea della curatrice intorno alla creatività femminile, e non femminista, diventa progetto con forme sinuose dell’abitare innovative, con un immaginario vitalistico.
L’idea che il genere non sia più solo un dato biologico e naturale, ma una questione culturale, apre interessanti prospettive anche per quello che potrà diventare il design after design, macro tema della XX1 Esposizione Internazionale della Triennale, che dopo l’Expo “vetrinizza” Milano altri sei mesi con 14 mostre distribuite in 11 sedi della città (da oggi al 12 settembre).
Il viaggio nel ventre rigenerante della progettualità femminile si apre nel segno di Penelope con la stanza degli intrecci, delle trame, dell’arte del tessere dal filo al telaio, ai ferri da lana, all’ago fino alla mano; davvero emozionante. Tra pizzi e merletti, manufatti in lana, sorprende una morbida Olivetti Lettera 32 (2009) fatta a maglia di Lucia Biagi, mentre tessono immaginari metaforici Paola Besana, Maria Lai e tante altre illustri creatrici che hanno operato all’ombra dell’ego maschile. Nella seconda grande sala sotto l’egida, giocosamente iconica, di dieci sante protettrici di specifiche categorie, disegnate da altrettante illustratrici dal segno fiabesco, centinaia di manufatti emozionali alzano il velo di Maya sulla progettualità rosa messa ai margini fino agli anni agli anni Zero, che si caratterizza per un design dinamico con forme dagli angoli smussati, più spontaneo e socialmente utile, mettendo la cura degli altri al centro della propria ricerca.
L’ordinamento cronologico e fluido riabilita figure che hanno un forte legame con l’Italia e con il suo sistema produttivo. Ma non solo. Spiccano le opere di artiste come Carla Accardi, dell’architetto Marta Lonzi, che mettono in discussione i labili confini tra arte e design. Passeggiando tra atolli di significativi oggetti, alcuni anche piacevolmente kitsch, si scoprono protagoniste dimenticate che hanno rappresentato il sistema del design, galleriste, storiche, comunicatrici, giornaliste.
Sono una rivelazione al grande pubblico Edina Altara o Marion Baruch, con il Contenitore-abito (1970), due semplici rettangoli di stoffa poggianti sul capo, chiudibili con una zip; si ammira l’audacia di Luisa Spagnoli, l’imprenditrice ante litteram, creatrice di moda, inventrice del Bacio Perugina e raffinata collezionista. Incantano manufatti inediti di Gilla Bojardi, Marisa Bronzini, Carlotta de Bevilacqua, Paola Lenti, Paola Navone, Emma Gismondi, le Barbie di colore, vestite secondo tipologie culture femminili diverse con abiti disegnati da Eliana Lorena, la sedia Slonga (1975) dalla semplicità complessa di Titti Fabini.
E tra le altre signore del design non potevano mancare la sedia Tripe (1948) di Lina Bo Bardi, i nomi già riconosciuti internazionalmente di Gae Aulenti, Cini Boeri, Patricia Urquiola e Marva Griffin, curatrice del padiglione Satellite che espone i nuovi talenti emergenti della Fiera del Salone del Mobile a Rho, fino a Matali Casset e Zaha Hadid, geniale architetto, cittadina del mondo intransigente e maestosa che ha trovato nella linea curva la quinta essenza del futuro, scomparsa prematuramente a 65 anni e che ci mancherà molto, per arrivare alle più giovani Francesca Lanzavecchia, Denise Bonapace ed Elena Salmistraro. Siamo gli oggetti che produciamo, usiamo e reinventiamo, e quelli in mostra tra ironia, profonda leggerezza, variabilità inventiva dall’attitudine sociale, colgono l’essenza misteriosa dall’energia vitalistica del design di ieri, oggi e domani.
Alla Triennale, lasciata alle spalle la mostra dedicata al design delle donne irrorata di luce naturale proveniente dalle grandi finestre, si entra in una selva oscura, nella notte eterna del mondo: uno spazio buio che inghiotte 100 oggetti simbolici custoditi come reliquie, reperti della modernità, raccolti nella mostra “Neo Preistoria. 100 verbi”, a cura di Andrea Branzi e Kenya Hara.
Una sequenza di oggetti che inscena metaforicamente il lungo cammino dell’uomo tra insidie e contraddizioni del contemporaneo, che ormai procede per tentativi nel mondo. Fa da sottofondo il battito amplificato di un cuore come simbolo l’istinto vitale dell’uomo. E, tra Dolmen, pietre, elementi naturali, strumenti della preistoria fino alle nano-tecnologie, fanno da contrappunto armi, maschere antigas e altri utensili di guerra che inquietano e affascinano insieme. Il percorso termina con un ologramma a forma di cuore, simbolo del verbo “rigenerare”.
Ma non è finita, perché alla Triennale troverete ancora “Stanze. Altre filosofie dell’abitare”, a cura di Beppe Finessi, che punta sull’architettura degli interni come luogo privilegiato di indagine, studio e riflessione sugli aspetti legati alla vita quotidiana delle persone e ridefinisce gli spazi e gli ambienti, con forme, colori e dettagli. “La Metropoli Multietnica” è invece l’altra mostra a cura di Andrea Branzi, sui temi complessi delle società multietniche, della convivenza conflittuale nell’epoca della globalizzazione di mercati. Tornando un po’ al femminile poi c’è “Brillant! I Futuri del gioiello italiano”, a cura di Alba Cappellieri, e che espone 50 gioielli che coniugano la vocazione manifatturiera con l’innovazione tecnologica delle nostra produzione orafa.
Fuori dalla Triennale, il “futuro artigiano” è di scena alla Fabbrica del Vapore, che ospita l’eccellenza della produzione italiana con l’intelligente mostra “New Craft”, a cura Stefano Micelli, una rassegna di manufatti che stanno modificando i modi della produzione e del consumo, coniugando il digital manufacturing con la tradizione artigianale, con l’obiettivo di valorizzare la cultura del progetto contemporanea e il design “under 35”.
Al Mudec invece “Sempering”, raffinata mostra a cura di Luisa Collina e Cino Zucchi, che racconta il processo di metamorfosi del progetto contemporaneo. “Sempering” è il presente continuo del verbo “to semper”. Ma è anche metafora di un’azione costruttiva su un materiale o un componente che lascia una traccia formale significativa sul prodotto finale, in architettura e design, e anche neologismo dal cognome dell’architetto Gottfried Semper (1803-1879). Otto categorie, impilare, o l’azione del muratore, intrecciare, o l’azione dell’impagliatore e del tessitore, plasmare, o l’azione del fonditore e dello scultore, connettere, o l’azione del carpentiere di legno o metallo, piegare, o l’azione del lattoniere, disporre, o l’azione del piastrellista e dell’assemblatore di elementi, incidere, o l’azione del decoratore e dell’intagliatore e soffiare, o l’azione del vetraio, quattro delle quali formulate da Semper oltre cento anni fa, che si riferiscono non tanto al materiale in sé, quanto ad alcune sue proprietà in connessione a una serie di possibili lavorazioni e modi di assemblaggio in strutture complesse, che valorizzano la progettazione contemporanea, la mano, la macchina e le azioni.
Di altro tutt’altro genere è la mostra “Architecture as Art”, a cura di Pierluigi Nicolin al Pirelli HangarBicocca, dove una quindicina di opere site-specific, un po’ troppo stipate tra loro, compilano una sorta di atlante che illustra i temi e i soggetti le responsabilità dell’architettura del XXI secolo. La mostra punta su collegamenti ipertestuali, esaltando un principio di molteplicità come sistema aperto delle modalità di costruire. Qui l’architettura mostra se stessa come arte, come succede per quadri e sculture.
Jacqueline Ceresoli