Tra la primavera e questo inizio estate il tema del classico ha goduto di una fama che non si registrava da tempo. Classico è l’orizzonte in cui la Fondazione Prada ha collocato le mostre nelle due proprie sedi espositive, inaugurando l’attesa sede milanese con un’indagine su che cosa significhi veramente “classico”, mentre il rimando ad esso è stata anche la posta in gioco in cui Vincenzo Trione ha cercato di ancorare il suo Padiglione Italia alla Biennale di Venezia.
E, a proposito di questo, calza a pennello un confronto con I’ll Be There Forever / The Sense of Classic, mostra ospitata nella prestigiosa sede di Palazzo Cusani a Milano (fino al 4 giugno), che approfondisce le più affascinanti declinazioni del classico nelle opere di alcuni dei più noti artisti italiani contemporanei sulla scena internazionale: Rosa Barba, Massimo Bartolini, Simone Berti, Alberto Garutti, Armin Linke, Diego Perrone e Paola Pivi. Qualcuno, infatti, l’ha visto come il vero Padiglione Italia. D’accordo o meno che si sia con questa lettura, resta il fatto che anche questa mostra, curata da Cloe Piccoli e che presenta opere site-specific appositamente prodotte da Acqua di Parma che ha promosso l’iniziativa, accanto ad opere già esistenti, interroga l’idea del classico che, evidentemente, è un confronto obbligato, almeno per l’arte italiana.
La tematica, come afferma la stessa curatrice, è nata dal contatto diretto con gli artisti che in maniera spontanea si sono trovati spesso a confrontarsi con il passato, creando dialoghi poetici e rimandi alchemici riconducibili a un “senso del classico”. Così è per la trilogia di Rosa Barba, The Hidden Conference, girato nei depositi di grandi musei. Attraverso questi video installati nella stanza buia e rumorosa del Salone Radetzky di Palazzo Cusani, Rosa Barba cerca di attivare un “dialogo silenzioso” fra le opere dimenticate all’interno dei musei come se esse abbiamo una vita propria. Mentre le opere visibili al pubblico sono esposte secondo parametri e criteri ben definiti , cronologico o tematico, nei depositi questo ordine viene decostruito: il criterio è quello dell’archivio. Troviamo una accanto all’altra opere di artisti, epoche e provenienze completamente diverse. Questo dialogo invisibile e impenetrabile crea quella “temporalità fluida” di cui parla Georges Didi-Huberman. Un tempo in cui presente, passato e futuro coincidono attraverso l’occhio dello spettatore che in un solo colpo può percepire mondi e culture lontane dalla sua. E non è un caso che l’immagine dello spettatore che attraversa la sala sia proiettata sui video, quasi all’insaputa del visitatore. Come nei Quadri Specchianti di Michelangelo Pistoletto lo spettatore non ha un ruolo passivo e puramente contemplativo, ha invece il compito di attivare l’opera d’arte secondo il principio che Cesare Brandi chiama “la fulgurazione dell’opera d’arte nelle coscienze”. In sottofondo il sonoro di alcune interviste ad artisti e stralci di film in una sequenza non lineare rappresenta la “discontinuità di quello che vediamo e non vediamo”.
Il senso del classico quindi «non come citazionismo o recupero di un canone», ci tiene a precisare la curatrice, bensì come evoluzionismo delle forme e dei significati nella storia dell’arte in dialogo con il tempo in cui sono attualizzati nelle coscienze.
Classico come la relazione fra artista e committente affrontato da Alberto Garutti che riporta l’uomo al centro dell’universo in un opera di forte impronta concettuale come Filo lungo 133 km: la distanza dalla porta della mia casa a Milano a piazza Garibaldi a Parma, sede dell’azienda profumiera, in cui un filo rosa lungo 133 km è avvolto e custodito in una teca di vetro.
Classico come stratificazione storica di memoria, di luoghi e immaginari collettivi che mostrano diverse epoche e culture messe in relazione. È ciò che fa Armin Linke nella sua interpretazione fotografica dell’allestimento museale di Carlo Scarpa a Palazzo Abatellis. Classico come la circolarità del tempo che mette in scena Paola Pivi in Call me anything you want: una cascata di perle che degradano dal rosa tendente al bianco, al nero in un percorso ciclico che ricomincia sempre uguale ma mai identico a se stesso. Lontano dal ribaltamento reale e metaforico di oggetti simbolo di autorità maschile che l’hanno resa celebre, in questa opera la Pivi evoca il recupero dello sfumato, in particolare delle tonalità dell’incarnato tenue che caratterizzava la pittura rinascimentale.
Classico come il rapporto fra uomo e natura nelle opere di Massimo Bertolini che aderendo a pieno alla sua poetica di partecipazione a un continuo processo di esperienza e di verifica mette in dubbio l’effimera persistenza di gocce d’acqua in Rugiada che restano salde e immobili sulla superficie verticale.
Classico come qualcosa che esercita un’influenza particolare sulla memoria collettiva. È il caso di Simone Berti che fa proprio il concetto calviniano secondo cui i classici «esercitano un’influenza particolare sia quando s’impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale». La citazione non è mai copia anche quando emergono immagini di dame del repertorio iconografico della storia dell’arte. «Da un po’ di tempo mi interesso a soggetti “classici”, li trasformo li scorporo dai loro contesti, li mescolo tra di loro e li utilizzo per i miei scopi, a volte anche in maniera brutale», afferma Simone Berti. Dal Rinascimento Fiammingo a Raffaello, procedendo per sottrazione e stratificazione Berti elimina lo sfondo dai dipinti e aggiunge degli elementi contemporanei. «Amo gli autori dai quali traggo immagini e ispirazioni, tuttavia sono per me sempre funzionali alla mia idea di arte che deve, anche stupidamente, avere un impatto immediato, alla prima occhiata» continua l’artista. Le dame di Berti hanno in mano o in testa delle astrazioni che diventano architetture: simboleggiano il mistero della creazione fra innovazione e tradizione. Metafora della creazione artistica anche l’opera La fusione della Campana di Diego Perrone a cui l’artista associa l’imprescindibile timore del fallimento. L’opera collocata all’entrata principale, incastonata sotto i portici per creare un rapporto dialettico con la struttura architettonica, produce una tensione di grande impatto visivo. Tensione dialettica che lo spettatore potrà cogliere nell’intero percorso della mostra anche grazie all’allestimento dello studio di architettura Kuehn Malvezzi.
Sara Marvelli