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05
dicembre 2016
Com’è Bologna dopo Morandi?
Progetti e iniziative
È quanto cerca di raccontare la mostra curata da Renato Barilli. Perché Morandi è uno spartiacque tra un prima e un dopo. E dopo arriva una generazione di artisti molto diversi
Viene presentata da Renato Barilli come la continuazione ideale della mostra “Da Cimabue a Morandi” che Vittorio Sgarbi attivò nello stesso palazzo Fava due anni fa, un viaggio a partire dagli immediati precedenti della “scuola bolognese del Trecento” fino al genius loci inverato da Giorgio Morandi. Bologna dopo Morandi si appoggia alla stessa organizzazione di Genus Bononiae e alla volontà del suo Presidente Fabio Roversi Monaco, cui si deve la connessione e l’incentivazione di alcuni musei della città e solide esposizioni che portano in questa Bologna un po’ appannata ventate di dibattiti come quello, recente, legato alla mostra sulla Street Art.
E certo, ora, si attende con curiosità e aspettative la nuova edizione di Arte Fiera diretta da Angela Vettese appena arrivata alla sua direzione, l’ampliamento dell’Opificio Golinelli in cui si lavora (anche) sulla relazione tra arte e scienza, gli ulteriori rilanci sulla fotografia industriale del MAST, creato dall’imprenditrice Isabella Seragnoli, tutti luoghi in cui chiarezza progettuale e lungimiranza si innestano su possibilità e passioni di un versante per così dire “privato”, a fronte della miserevole penuria di risorse economiche e umane dei musei statali e delle idee poche ma confuse dedicate al MAMBO.
Il titolo della mostra di Barilli è già chiaro, “Bologna dopo Morandi” (fino all’8 gennaio), che vuol dire essere stato, Giorgio Morandi, la linea di demarcazione tra un prima e un poi. E naturalmente, se nella pittura l’artista che per tutta la vita dipinse con rare eccezioni nella casa di via Fondazza e a Grizzana – chiamata Grizzana Morandi grazie a un referendum popolare che connesse nome a nome – fu figura di tale assoluto rilievo artistico e umano, parallelamente per la critica d’arte il nome che segna un prima e un poi è quello di Francesco Arcangeli, che diresse la Galleria d’Arte Moderna dal 1958 al 1968, in una città segnata da studiosi che hanno contribuito a creare la storia dell’arte italiana: Cesare Gnudi e Carlo Volpe, Eugenio Riccomini e Andrea Emiliani, e per breve ma significativo tempo Roberto Longhi, che in Morandi individuò una sostanza pervenuta dalla chiarissima sintesi di Piero della Francesca, proiettata nell’analisi silenziosa e fattiva di cosa potesse essere la pittura “dopo” Picasso e il picassismo, imperante in Italia e oltre a ridosso della fine della seconda guerra mondiale.
Arcangeli, dunque, e l’Ultimo Naturalismo, quell’informale padano – «la natura vista dall’occhio della gallina», ridacchiava Morandi – ampiamente documentato da Barilli con particolare attenzione e opere cospicue, dove la materia pittorica diventa gesto ribollente di un rapporto aggressivo con il dato naturale, in raggiungimenti ricordevoli rabbiosi assoluti, come in Moreni, Vacchi, Bendini, espansivi e succosi come in Morlotti, Mandelli, Romiti, con cui poi si confronteranno, tra gli altri, Mario Nanni e Ilario Rossi. Una mostra che procede per sezioni tematiche verso i nostri giorni, e fa sosta intorno al 1980, quando lo stesso Barilli, assieme a Francesca Alinovi e Roberto Daolio – e siamo nel momento della Transavanguardia di Bonito Oliva, del Magico Primario di Flavio Caroli, dell’Anacronismo di Maurizio Calvesi – unisce in un’esposizione presso la Galleria d’Arte Moderna i Nuovi Nuovi, “corrente” che nella mostra di palazzo Fava è presente con artisti diversi: con, adesempio i cesellati, favolistici estetici pezzi di Bruno Benuzzi, o con le rappresentazioni disegnatissime multiple minerali di Marcello Jori, compagno di strada di Andrea Pazienza, che qui ci fa sognare con splendidi disegni, il fantastico fumettista che aveva disegnato il suo primo orso a diciotto mesi e che a Bologna studia al DAMS, morto giovanissimo, nello stesso 1988 che si porta via a trentasette anni la genialità pittorica e fotografica di Piero Manai («Uso la polaroid -diceva in occasione della sua mostra “L’insostenibile visione dell’essere” – perché riporta la fotografia alle sue origini. Non avendo negativo, la foto scattata è un pezzo unico»).
Ma ad affrontare gli anni dal 2000 in poi si arriva in realtà con testimonianze frammentarie e parziali e in alcuni casi poco significative. Sarà questo un buon motivo per pensare ad un’esposizione ulteriore, che parta dagli inizi del nuovo millennio, e che dia conto di quegli incroci e formalizzazioni di pensieri che a Bologna, dalla musica e dal fumetto e dal cinema, così radicati nella sua tradizione, transitano nel video, nella fotografia, nella performance, nella scultura nel disegno, nella pittura e nell’installazione e divengono relazione col mondo.
Eleonora Frattarolo