Con la cultura si mangia. Benino

di - 14 Novembre 2012

Poca luce e molto colore perché lo spettacolo sta per cominciare, e si chiama “Viaggio intorno all’Uomo”, la mostra curata da Peter Bottazzi e Biba Giacchetti, che si articola nel Sottoporticato di Palazzo Ducale a Genova, visitabile fino al 24 febbraio, con 200 scatti che sono veri appuntamenti con le emozioni forti della vita, realizzati dall’obiettivo del grande maestro Steve McCurry. Il viaggio parte con una serie di ritratti, solo sguardi intensi, che colpiscono al cuore, occhi capaci di descrivere un universo di sentimenti: «Ho imparato a esser paziente. Se aspetti abbastanza, le persone dimenticano la macchina fotografica e la loro anima comincia a librarsi verso di te». Parole di McCurry, il fotografo vincitore per quattro anni consecutivi del World Press Photo, capace di cogliere l’attimo che va oltre il tempo.

Solo visi unici, enigmatici e distaccati, sempre di intensità straordinaria. Come Sharbat Gula, la bambina afgana con gli occhi verdi, fotografata a Peshawar nel ’84, e poi pubblicata nella copertina del National Geographic, una foto senza età; come la donna Tuareg del Mali, di una delle poche tribù dove sono le donne ad avere il volto scoperto, o il minatore afghano, dignitoso, fiero, un altro sguardo capace di ipnotizzare, di bucare la superficie e di stabilire un contatto diretto con lo spettatore. Un percorso diviso in cinque sale che raccontano gli stati d’animo dell’uomo. Dopo la scoperta, raccontata dai ritratti, i volti, arriva la vertigine, quella dei sentimenti fuori controllo, che esplodono solo in mezzo alle tragedie, alle guerre, ai cataclismi, dove paura e dolore non conoscono limite. Finite le emozioni estreme, arriva la poesia, con ritmi dolci e romantici, più delicati. Poi è la volta dello stupore, con immagini inattese, curiose.

L’ultima sala è dedicata al passato, alla memoria, a Sharbat Gula, ritrovata da McCurry vent’anni dopo quel famoso scatto che l’aveva resa famosa. McCurry non ci presenta solo volti sconosciuti, anche quelli noti, colti con un’espressione diversa da quella che siamo abituati a vedere come Robert Henry De Niro (padre di Robert, il noto attore), stanco, sguardo affaticato, circondato da un’esplosione di colori nel suo studio a New York. Poi ancora guerra, quella del golfo in Al Ahmadi, in Kuwait, nel ’91, fatta per il National Geographic per raccontare l’immensa sofferenza dell’ambiente. Cosa dire invece di Porbandar, presa nel momento dell’esondazione, una distesa d’acqua, anche una storia commovente: in mezzo un anziano, che nuota portando in salvo la sua vecchia macchina da cucire, il patrimonio che gli è rimasto è solo il suo sorriso. Incredibilmente, dopo che la foto era stata pubblicata sul National Geographic, il sarto è stato rintracciato per donargli una nuova macchina da cucire, gesto che gli ha permesso di continuare a lavorare.

Le immagini di McCurry sono sempre potenti, esteticamente perfette, emergono dalla superficie e fanno vibrare chi le guarda, sono messaggi che arrivano da luoghi lontani, e diversi, ma che hanno in comune l’intensità. Di grande impatto è anche l’allestimento della mostra, in alcune sale più essenziale, in altre più scenografico, un modo per completare il racconto di questo grande poeta dell’attimo fuggente. Anche un altro appuntamento della Fondazione Palazzo Ducale con la grande fotografia: «È una mostra che conferma la nostra attenzione per l’immagine fotografica con grandi nomi, da Capa, Dondero, Lucas, Giacomelli, a Tina Modotti e Kubrick – spiega Luca Borzani, Presidente della Fondazione Palazzo Ducale – intesa come cultura esploratrice attraversata da tanti linguaggi diversi, che spaziano dal reportage alla foto artistica, rendendo l’immagine fotografica una componente del nostro immaginario visivo. McCurry è un appuntamento della proposta della Fondazione di Palazzo Ducale con cui cerchiamo di rivolgerci a pubblici diversi. In questi anni abbiamo costruito un discorso espositivo con mostre molto differenti, da De Andrè, a Fontana, da Van Gogh, a l’Africa delle meraviglie, solo per citarne alcune».

Come conciliate il concetto di qualità con un’ampia offerta culturale?

«Penso che la qualità ci sia sempre. Non è vero che il prodotto elevato è rivolto a una dimensione ristretta, di nicchia. Il problema è che spesso il prodotto è presentato in modo da non essere fruibile per un pubblico esteso. Abbiamo fatto cicli di incontri con la filosofia, e la Storia in Piazza, che ci hanno fatto raggiungere 80mila presenze, puntando sempre a incontri con grandi personaggi, seguendo il principio della qualità accessibile a tutti, che poi rimanda a un altro concetto: oggi tra le persone c’è un bisogno di conoscenza che non più soddisfatto da politica e media, che vuole discorsi più lunghi, con  riflessioni su argomenti che vanno dalla crisi economica all’intercultura, senza trascurare  temi profondi come la vita e la morte».

Argomenti non facili da trattare. La vostra formula?

«Cerchiamo di evitare la dimensione accademica e televisiva, muovendoci nella direzione opposta: costruendo eventi culturali, senza la spettacolarizzazione tipica della televisione. Chi lascia i nostri incontri, esce sapendo qualcosa di più, e divertendosi. La scelta della Fondazione, non è solo quella di esser un luogo espositivo, ma uno spazio aperto tutto l’anno per partecipare e ascoltare qualcosa che interessa al cittadino. Palazzo Ducale non è più il salotto buono di Genova, ma un luogo di confronto e incontro, perché oggi l’attività culturale non si autolegittima, ma deve avere un riconoscimento sociale».

A proposito di cifre?

«Noi abbiamo introdotto l’attenzione al bilancio, sempre in pareggio nonostante i tagli. Il contributo pubblico è del 40 per cento, legato solo ai costi di personale e immobili, tutto il resto è fatto con soci e sponsor. La Fondazione è moltiplicatore delle risorse pubbliche in due sensi: l’investimento pubblico rimanda a un complesso di attività superiore come volume, poi come ritorno economico sulla città per la presenza di visitatori».

Allora la cultura fa mangiare?

«Partiamo da un altro ragionamento, dal punto di vista pubblico, quando si parla di cultura, comincia un’intollerabile retorica. Non vengono fatti processi di razionalizzazione, di migliore fruizione, e questo non accade nemmeno tra pubblico e privato. Ricordiamoci che oggi in Italia il privato è poco stimolato, non vengono create possibilità di defiscalizzazione. Bisogna trovare modelli in cui cultura d’impresa e ragioni pubbliche possano trovare una loro sinergia. Si parla di cultura con modelli gestionali inefficienti, e costosi, c’è bisogno di indicatori che permettono di misurare oltre al ritorno economico, quello sociale. Si è partiti da una situazione dove collegare la cultura al suo ritorno economico era ritenuto un imbarbarimento, per arrivare a considerare la cultura nel suo elemento di ritorno economico. Forse esiste una terza dimensione: pensare al valore sociale e pubblico della cultura, e contemporaneamente pensare che possa essere una componente dello sviluppo. Non credo ad un rapporto diretto tra cultura e mercato e nemmeno a una cultura indifferente alla sostenibilità economica. Quando si parla di cultura sarebbe necessario un piano  di valorizzazioni, di indicatori, di priorità, non solo di tagli, per considerare le possibilità di sviluppo di beni che non saranno mai delocalizzabili».

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