Baciato dall’incostanza, Aldo Mondino (Torino, 1938-2005) l’arte se l’è rigirata in lungo e largo per costruirsi una misura poetica di facezie all’esterno, e tutta sostanza dentro. Matura, ad undici anni dalla sua scomparsa, per essere oggetto della pretenziosa retrospettiva “Aldo Mondino – moderno, postmoderno, contemporaneo” (a cura di Ilaria Bonacossa, Museo di Villa Croce di Genova, fino al 27 novembre), mai rigida nel definire i tratti salienti di una “vita da Mondino”.
La vita di un bohémien all’italiana artisticamente plasmato dai suoi viaggi esotici, e pure quella di un uomo della porta accanto giorno per giorno a contatto coi “fischi per fiaschi” presi a causa dalla miopia, difetto-effetto che alterando l’interpretazione della realtà ha definito – con l’aiuto di un po’ di creatività – schemi comunicativi desueti. Una doppia anima per cui parla chiaro la stupenda sovrapposizione di tappeti installati sulle pareti dello scalone di Villa Croce, coloratissima e decoratissima fascinazione marocchina; e fintissima, dove la preziosità dei materiali pregiati e dei nodi fatti a mano è convertita dall’artista nell’intreccio industriale di sottili strisce in eraclite tutt’altro che nobili. Più o meno la stessa validità del binomio bronzo/cioccolato, materiali scultorei intercambiabili e a distanza indistinguibili anche per gli osservatori più accorti. Travisare l’ovvietà nella visione poetica dell’artista alla fine era un’azione che ne risolveva ben tre: sperimentare media, stupire il pubblico e condividere gli effetti di quella vita da Mondino.
Inganni a parte, quid fondamentale di Mondino è però il ritmo narrativo, il coinvolgente story telling di un’arte che è lampantemente su misura pubblicitaria, soprattutto quando dall’alterazione sperimentale dei materiali si passa a rebus formali e astuti giochi di parole capaci di strappare un sorriso. Che si fa amaro solo quando dal titolo Scultura un corno – elastica sovrapposizione di elefanti giocata sulla forma dei loro corni – sbuca una riflessione sullo sterminio dei pachidermi africani per via delle loro zanne d’avorio. Prodotta in fusione di bronzo, in cioccolato o ceramica, resta un caposaldo della “mondinianità”, ossia dell’arte di concettualizzare senza partire col magone.
Apposta per Mondino torna il format della mostra itinerante tra punti strategici cittadini, inaugurato più o meno un anno fa nella personale dedicata a Susan Pillipsz; ennesima riprova che Ilaria Bonacossa è curatrice particolarmente attenta nel dar respiro al proprio museo facendo intelligentemente sistema con la città ospitante. E se una mano lava l’altra, di conseguenza fa pure bene a Genova stessa, che con due passi a piedi consente di (ri)scoprire punti d’interesse spesso emarginati da gite turistiche più o meno individuali (e noi qui ve ne suggeriamo uno particolarmente meritevole, la basilica di Santa Maria Assunta in Carignano). Poi c’è sempre il fatto che ad antologica corposa si risponde offrendo spazi maggiori, e soprattutto che l’arte contemporanea di taglio istituzionale (non collocata in sedi private) sotto la Lanterna di luce ne vede ben poca (Palazzo Ducale a parte, ma lì il tenore è decisamente diverso).
Perciò non accampate scuse e preparate le scarpe comode, l’epopea mondiniana corre all’interno di una rete espositiva divisibile in una serie di spazi “guest”, dedicati a singole installazioni (Palazzo Rosso e Bianco, Palazzo Reale, Casa di Colombo, Palazzo Ducale e il mitico Acquario), e due sedi principali (Villa Croce e Palazzo della Meridiana) cui spetta il compito di gestire il grosso della mostra. Se poi il senso dell’orientamento è il vostro tallone d’Achille non allarmatevi, verrete puntualmente dotati di un simpatico (si far dire, con tutto quel bianco e nero) pieghevole con la dettagliata mappa delle sedi, perdersi sarà pressoché impossibile.
Due per due, due sedi principali per due tronconi temporali: anni 1960-1990 a Villa Croce, 1980-2004 a Palazzo della Meridiana. Ma in fondo l’andazzo cronologico in questa mostra serve piuttosto a sgrossare i circa quattro decenni creativi a ruolo; a Villa Croce infatti ci si è mossi meglio procedendo per temi, puntando sala per sala su materiali e fascinazioni di un artista che ha piluccato molte correnti artistiche senza mai divorarle. Trascendendo il tempo, suo e degli altri.
Storie del tipo “Casorati, l’arte pop e una sottospecie di ready made”, stratificazioni che Mondino è riuscito a far incrociare in Accoppiamento (La porta); vera porta inutile e diversamente utile supporto per avvitare la Maternità con le uova di Felice Casorati, dipinta da Mondino su una piccola targa in plexiglass. È una questioni di passaggi: porta, citazione artistica, iconografia-marchio riproducibile alla nausea, tanto sulla chiave infilata nella toppa quanto tra le strisce in plastica di Tenda (Casorati), tenda da esterni che è solo una delle infinite destinazioni per il Casorati alla pop-potenza di Mondino. A questo punto però i golosi incalliti saranno già distratti dal profumo di buon dolce nell’aria, poiché quando l’artista è Mondino ci sono sempre ad aspettarvi le punte di fiabesco di una pura immersione in quadri di zucchero e piscine in veri marshmallow. Nemmeno dovessero saltar fuori Hansel e Gretel.
Annusami, leccami, mordimi; i materiali edibili oltre a scombinare le carte sul tavolo della percezione determinano azioni sensoriali e pratiche fino a quel momento (anni Settanta-Ottanta) estranee all’arte, sintetizzando nel corso dei decenni successivi gli effetti tipici del post-modernismo con una sorta di globalizzazione culturale. Così le grandi pareti di mosaici bizantini per il torinese Mondino potevano divenire un’enorme tavola rivestita di cioccolatini multicolore, con attenzione particolare a dare peso ad ogni loro forma, in particolare a quella del gianduiotto; cibo inteso come significante a tutto tondo, nei mosaici quanto nella cadente Torre di Torrone composta da – appunto – torroni (per la verità finti, ma poco cambia) di Sebaste, ditta dolciaria piemontese doc. Da sottolineare in corsivo infine il dialogo espositivo senza anacronismi stabilito da opere con ben 31 anni di distanza l’una dall’altra (rispettivamente 1968 e 1999) nella medesima sala.
Alle operazioni più direttamente concettuali corrispondono abilità pittoriche indiscutibili, perché quando Mondino incontrava l’olio – specialmente negli anni a cavallo tra Ottanta e Novanta – era di una parsimonia con pochi eguali. In altre parole un suo dipinto non finiva mai in “caciara”, nemmeno su operazioni monumentali come Festa araba, il cui linoleum di supporto con le sue geometrie incornicia la struttura compositiva senza mai sovrapporsi ad essa. Un fondamentale giusto rapporto pittura/supporto, ciò che rende Dervisci ed i ventuno pezzi di Sufi dance – e qui già siamo a Palazzo della Meridiana – operazioni ancora una volta al confine tra magico e fiabesco. Perfetta mise en place di luci soffuse e pareti bordeaux intenso per dar forza ai punti luce incastonati nel linoleum, quelli a loro volta in grado di dar risalto al volteggio delle leggerissime pennellate cadenzate, mosse a creare impalpabili plissettature bianche. Ed a corollario un’attenzione miniaturistica all’espressività di ogni singolo ballerino.
Se le luci soffuse talvolta esagerano col loro essere soffuse, rendendo quasi difficile decifrare la serie dei Cacciatori di orchidee e molto più facile prendere a calci i fiori sparsi ai piedi del Ritratto di Lord e Lady Cavendish, con puntualità funzionano nella definizione scenografica di un Muro del pianto in blocchi in polistirolo rivestito in zucchero, con tanto di variazioni di taglio per i massi, cangiantismi che utilizzano miscele bianco/canna, e deliziose erbe cresciute tra una fessura e l’altra. Dolcezze concettuali che senza Mondino difficilmente avremmo mai vissuto.
Andrea Rossetti