Se Walter Benjamin potesse attraversare il Canale della Giudecca e visitare “Sguardo di Donna”, la mostra collettiva che racconta la passione e il coraggio da Diane Arbus a Letizia Battaglia, curata da Francesca Alfano Miglietti e allestita da Antonio Marras nella Casa dei Tre Oci a Venezia (fino all’8 dicembre), allora direbbe che il coraggio dello sguardo è quella passione che ci abita quando l’insieme dei tessuti e delle forme che aderiscono con più intimità ai nostri corpi ci investono come una folla di persone possibili che potremmo essere stati o che potremmo ancora essere.
Marras interpreta in questo modo gli sguardi di donna, cui fa aderire lo spazio della casa-galleria con una scenografia che letteralmente abita lo spazio e lo sguardo del visitatore, imponendogli un abito, femminile e/o maschile, costringendo lo sguardo a un interrogarsi perenne non solo su quello che sta guardando, ma a proposito della sua stessa presenza in relazione a quello che guarda. Definire la propria posizione rispetto al mondo, quasi giustificandola rispetto a un giudice, a un senso di colpa, a un sorvegliante o a uno sguardo desiderante, tutti atteggiamenti che un corpo femminile, e di conseguenza il suo sguardo, subisce. Con il proprio sguardo, in genere abbassato o sfuggente, di lato, una donna deve giustificare la propria presenza vitale o cancellarla o dichiararla con un gesto provocatorio. Per definizione, lo sguardo di donna è obliquo e riferito ai margini, centrale solo se rappresentato da altri. Da qui l’abito perfetto confezionato da Marras per questa mostra, a partire dagli scarti dei costumi di scena nei magazzini della Fenice.
Nella storia dell’arte, e della fotografia, la donna è stata in genere oggetto di sguardo. Oggetto di un desiderio e solo in virtù di quello desiderante a sua volta, come un ospite educato che risponde a un invito. La donna è un essere definito come altro rispetto a un uomo in questo senso, come scrive la curatrice FAM, citando Simone De Beauvoir.
Partendo da questa condizione, le fotografie in mostra, tutte realizzate da donne, artiste tra loro molto diverse e di diverse generazioni – tra le altre: Yael Bartana, Sophie Calle, Tacita Dean, Martha Rosler, Yoko Ono, Nan Goldin, Catherine Opie, Chiara Samugheo e Alessandra Sanguinetti – rivelano un gesto speciale: quello di guardare e di interrogare, prima che con lo sguardo, con la propria presenza fisica uno spazio e un soggetto. Si sente in tutte le foto, la presenza fisica di un’osservatrice, il gesto partecipe della presenza e della com-presenza alla scena, una contemporaneità che non è solo empatia, condivisione o partecipazione. Anche nelle scene più alienanti, più respingenti, prima della visione e della rappresentazione, si sente una domanda circa il senso del proprio stare a guardare. Per questo tutte le foto sono come l’eco di una voce, l’eco di uno sguardo, le immagini sono risposte e ri-domande; sono sforzi di liberazione dal biologicamente determinato, ma anche affermazioni di appartenenza o meno a una condizione, a un genere; dichiarazioni di desiderio, definizioni di differenze, rivelazioni di violenze in genere accettate o nascoste.
Da qui l’assoluta ripetizione nei ritratti dello sguardo in macchina, lo stare dentro la scena di lato, rivelando anche i margini e non solo gli indizi e i fatti oggettivi. Un atteggiamento che unisce tutte le immagini in mostra, che hanno una forza e una presenza fisicamente coinvolgente, difficile da trovare in qualsiasi altro luogo è proprio questo: per guardare devi esserci e la tua presenza determina il senso delle tue immagini. Per questo nelle foto c’è come una forza obliqua che attraversa tutto il campo del visibile, oltre quello definito dall’inquadratura, ed è per questo motivo che l’allestimento decisamente eccessivo di Marras risulta così efficace. Anche ai limiti dell’insopportabilità e della sopraffazione, come se lo sguardo fosse iper-determinato da un pregresso di memoria non detto, non visto, nascosto, per emergere dal quale un’immagine deve avere una forza interiore, politica, gestuale che non si risolve nell’atto “puro” del vedere le cose come sono, né si illude di poterlo fare.
Dopo avere attraversato il foyer con la folla di abiti, il piano nobile con gli armadi pieni di ritratti e il primo piano decostruito come una scenografia che non regge, il senso è che ogni sguardo è di donna quando si interroga sul limite del sé e delle convenzioni, quando cerca di abitare a disagio abiti altrui e affronta violenze convenzionali e passioni ancora senza un linguaggio che le neutralizzino.
Irene Guida