COSTELLAZIONE NON PROFIT, I |

di - 18 Febbraio 2010

Sono dinamici, indipendenti, hanno strutture agili, economie piccole, staff flessibili. Soprattutto, a muoverli è una sana urgenza di ricerca e sperimentazione. Sono i collettivi non profit, suddivisi tra piattaforme curatoriali, spazi-progetto, team di artisti e/o curatori, associazioni culturali o semplici gruppi di ricerca: il panorama è composito, ma humus e atteggiamento sono simili.
Non profit vuol dire “senza scopo di lucro”. Ma significa anche autonomia rispetto alle logiche del mercato, delle istituzioni, della politica. In altre parole, fare ricerca senza compromessi. Una boccata d’aria per l’immaturo art system italico. Comportandosi spesso come hub interconnessi e mobili, questi soggetti stanno tentando di suggerire nuove direzioni, nuove formule.
I fondi? Arrivano da canali diversissimi. Dalle collaborazioni con istituzioni culturali a quelle con sponsor privati, dalla partecipazione a bandi di enti pubblici alla ricerca di piccole e grandi donazioni, dall’autofinanziamento tramite vendite di multipli o benefit show fino al sostegno ricevuto da mecenati e collezionisti.
La nostra indagine comincia con la categoria dei collettivi curatoriali, gruppi che prediligono attività nomadi, aperte, non identificate con uno spazio espositivo ma riformulate di volta in volta. Le attività svolte? Mostre, festival, progetti editoriali, tavoli di ricerca, workshop, videoscreening, residenze, interventi d’arte pubblica, laboratori didattici… Per un approccio multilivello, orientato alla creazione di network il più possibile ampi e differenziati.

A.TITOLO – torino


Un team tutto al femminile quello di a.titolo: Giorgina Bertolino, Francesca Comisso, Nicoletta Leonardi, Lisa Parola, Luisa Perlo sono cinque critiche e storiche dell’arte. Insieme ad altre colleghe, oggi uscite dal gruppo, fondarono l’associazione a Torino nel 1997. “Eravamo convinte”, raccontano, “che l’attività critica limitata alla stesura del testo o all’allestimento di una mostra non corrispondesse più al senso del lavoro degli artisti nostri coetanei. Allora, lentamente, abbiamo ideato un modo di lavorare basato sul confronto: è ciò che ci permette tuttora di leggere il progetto artistico, la situazione, il contesto, attraverso un intreccio di sguardi, posizioni e riflessioni”. Il rapporto tra arte e sfera pubblica ha rappresentato per a.titolo un orizzonte costante. Una prima, importante tappa fu il convegno Arte pubblica: progetti ed esperienze europee, curato con Alessandra Pioselli alla Biennale del 1999 nello spazio Oreste del Padiglione Italia. Quindi, a partire dal 2001, si concretizzarono in Piemonte vari progetti, realizzati secondo il modello Nuovi Committenti. Ideato dall’artista François Hers e promosso in Italia dalla Fondazione Adriano Olivetti, il programma prevedeva la produzione di opere d’arte commissionate direttamente dai cittadini per i loro luoghi di vita o di lavoro: un modo per riqualificare lo spazio urbano attraverso landmark artistici progettati a partire dalle esigenze degli utenti finali. Grazie alla mediazione di a.titolo, Nuovi Committenti fu applicato nel quartiere torinese Mirafiori Nord, a Montalto Dora e all’Hospice du Col du Petit-Saint Bernard, con il coinvolgimento di artisti come Massimo Bartolini, Stefano Arienti, Lucy Orta e Claudia Losi.

Abbiamo creato una piattaforma di lavoro in cui collaboravano in modo paritario persone con ruoli, competenze e visioni diverse”, ricordano le protagoniste a.titolo. “Ci interessa proprio quest’idea di comunità temporanea, trasversale, in cui la spinta all’agire muove dall’immaginario, da ciò che non c’è ancora e che si può costruire per cambiare l’esistente”. Le opere realizzate? Da un laboratorio di Storia e storie all’interno di un’antica cappella a una scultura abitabile e un campetto da gioco in un parco urbano, fino alla creazione di un’area verde di sosta nel cortile di un complesso di edifici a edilizia pubblica.
Nuovi Committenti rientrava nel programma di rigenerazione urbana Urban 2, avviato dalla Comunità Europea. Ma come si finanzia in generale un’associazione come questa? “Non riceviamo fondi strutturali, ma solo finanziamenti su singoli progetti. Questa situazione, non facile, ci ha rese capaci di lavorare in forma modulare, permettendoci di operare sia con grandi produzioni che con budget molto ridotti”, spiegano. Aggiungendo: “Noi non partiamo dall’economia ma dalle idee, che poi calibriamo e articoliamo in ragione delle possibilità di realizzarle. Non la definiremmo però una ricetta vincente, perché come molte altre situazioni in Italia è sostenuta soltanto dalla passione, dalla volontà e dalla capacità di resistenza”.
E nel futuro? Una nuova esperienza si profila per il collettivo torinese, a cui è stata affidata la direzione artistica triennale del CeSAC di Caraglio, nel cuneese. Non più un territorio su cui organizzare azioni mirate, ma un centro d’arte da gestire: “Un impegno non semplice, tenendo conto della posizione geografica decentrata e soprattutto della profonda crisi economica di questi anni”.

1:1 – roma


1:1 projects (si legge one-to-one) nasce a Roma, nel 2006, su iniziativa di un ampio nucleo di critici e curatori, poi allargatosi ulteriormente. Oggi sono rimasti in quattro: Cecilia Canziani, Benedetta Di Loreto, Maria Alicata, Daniele Balit, Adrienne Drake.
1:1 è un tentativo di ripensare le modalità di produzione e distribuzione dell’arte contemporanea attraverso la collaborazione, l’approccio interdisciplinare, la ricerca”, spiegano i componenti l’associazione. La struttura ha un chiaro carattere di fluidità, laddove il dinamismo resta la chiave di tutto il modus operandi. Dietro un apparente disordine, il segreto di tanta efficacia operativa: “Ci teniamo a mantenere il più alto livello di disorganizzazione possibile, in modo da poterci strutturare attorno ai progetti, a seconda di ciò che serve. Lavoriamo a geometria variabile, non siamo sempre tutti coinvolti nei progetti, ma a seconda di quello che possiamo apportare, dei nostri interessi e dei nostri impegni”.
Configurandosi come un framework di ricerca, capace di catalizzare energie creative e slanci progettuali, il collettivo romano sceglie di non utilizzare (quasi mai) il proprio spazio come sede espositiva, ma di rimodularsi di volta in volta in contesti differenti. Questo consente di “essere più flessibili, più capaci di ascoltare, più rapidi. Il nostro spazio, che è sia ufficio che sede dell’archivio, non l’abbiamo mai pensato come una project room, ma come un luogo di studio, visione e ascolto sull’arte contemporanea”.
E veniamo proprio all’archivio, cuore pulsante del collettivo: “Periodicamente ci riuniamo e stiliamo una lista di artisti da invitare. Selezioniamo italiani e stranieri, romani e non”. Il criterio? “La rilevanza della loro ricerca nel momento in cui li invitiamo”.
Non si tratta di un database virtuale, ma di un “contenitore” cartaceo, concreto, da toccare e sfogliare. La volontà collaborativa è forte anche in quest’ambito, dal momento che “l’archivio è al contempo un progetto curatoriale, in cui altri curatori da noi invitati propongono una loro selezione. È successo con Yane Calovski di Press to exit e con Pietro Gaglianò, in seguito al workshop che abbiamo realizzato su suo invito con un gruppo di giovani artisti toscani a Scandicci. In quell’occasione abbiamo portato l’archivio con noi, in viaggio. Magari nel prossimo futuro potremmo lavorare all’idea di renderlo itinerante…”.
Fra gli altri progetti portati a compimento, i ragazzi di 1:1 tengono a ricordare, accanto a workshop e programmi didattici, “la mostra ‘Unfair Fair’, che voleva analizzare i meccanismi economici delle fiere con una proposta critica, e ‘Vision Forum’, una sorta di gruppo di ricerca itinerante in cui sono coinvolti artisti e curatori di tutta Europa per discutere un tema scientifico complesso come quello del multiverso. I risultati di tre mesi di studio si vedranno in una mostra che raccoglierà gli elaborati di quanto discusso”.

Costituitasi fin da subito come associazione culturale, anche 1:1 alterna iniziative low budget ad altre più ambiziose. Ma sempre in un’ottica non profit. Con una precisa consapevolezza secondo cui “la cultura del non profit non è necessariamente a basso costo, ma crede nel valore della rete, nella ripartizione di competenze e costi, nella elaborazione di modelli di finanziamento alternativi, nella responsabilità nei confronti del pubblico, nell’impiego delle risorse e dei finanziamenti erogati da fondi pubblici”. Più che un’economia povera, un’economia etica. Da dove arrivano, allora, i fondi? “Noi siamo per un terzo autofinanziati, per un terzo sostenuti dagli artisti e dai collezionisti, e per il restante terzo abbiamo avuto finanziamenti sui singoli progetti: British Council, European Cultural Foundation, Danish Arts Council, Mondrian Foundation, Kultur Kontact Nord, oltre a soggetti con cui abbiamo collaborazioni come Linkopings Universitat, Fondazione Pastificio Cerere, Scandicci Cultura, Liceo Artistico de Chirico”.
Lunga la lista dei supporter, che dà l’idea di una grande macchina cooperativa. Un concetto che spunta presto fuori, nelle riflessioni del gruppo: “Per vocazione il non profit si pone all’interno di una rete ampia, in dialogo con tutti i soggetti, istituzionali e non. E così cerca di elaborare strategie di sopravvivenza. In quest’ottica potrebbe addirittura candidarsi a reagire meglio di strutture più complesse come i grossi musei, che a ben vedere risentono forse più degli altri attori la crisi. Noi, che siamo abituati a muoverci in uno stato di emergenza, siamo quantomeno psicologicamente avvantaggiati”. Ma non è solo o soprattutto la crisi economica a far paura: “In Italia è la crisi di valori culturali il vero problema, e a questa non abbiamo soluzioni da offrire. Non abbiamo altro che le nostre forze per resistere. E quindi… speriamo che non ci abbandonino mai”.

PROGETTO ISOLE – misilmeri (pa)


Un laboratorio artistico permanente senza fissa dimora. È così che Barbara D’Ambrosio e Costanza Meli, conosciutesi a Roma tra i banchi de La Sapienza, amano definire Progetto Isole, partito nel 2004 a Isola delle Femmine, in provincia di Palermo, su iniziativa delle due giovani storiche dell’arte, e nel 2007 trasformatosi in associazione culturale.
Ad avvicinarci fu l’interesse nei confronti di un approccio che unisse teoria critica e pratica artistica”, raccontano a Exibart, “nel tentativo di condurre una riflessione intorno all’idea d’interazione col contesto sociale”. Da allora prese a definirsi e consolidarsi l’identità del gruppo-laboratorio, inteso più come percorso di ricerca che come “luogo” per eventi artistici. Anzi, l’idea di luogo ne era e ne sarebbe rimasta estranea, in favore di un nomadismo e di una estemporaneità scelte come cifra concettuale del collettivo: “Progetto Isole non opera a partire da un concept definito, ma elabora strategie e finalità ogni volta diverse, poiché si radica in un periodo di tempo abbastanza lungo in ogni territorio, studiandone le necessità, osservandone le caratteristiche”. In un’ottica così smaccatamente sociale e irrinunciabilmente locale, in cima alle priorità stanno il dialogo, l’incontro, la capacità di costruire storie polifoniche, in cui cittadini, artisti e gruppi di ricerca condividano idee, testimonianze, ricordi, esperienze: “Questo è per noi un passaggio molto importante, poiché si fonda sulla richiesta di fiducia che facciamo ai nostri interlocutori locali, affinché affidino il proprio racconto alle nostre parole, alle nostre immagini”.
La scelta di operare secondo una prospettiva corale si concretizza in molteplici attività: workshop con scuole e accademie, residenze per artisti, laboratori. Il lavoro si concentra in un luogo geografico specifico ma attraverso un tempo lungo, secondo un intreccio di piani.

Oggi è Piana degli Albanesi, località in provincia di Palermo, la nuova area d’interesse del collettivo, che ha lanciato qui il progetto Isola in Rete. Piana è un comune singolare, abitato da un antichissimo insediamento balcanico (da qui il nome della cittadina) che ha portato con sé i propri riti e la propria lingua, l’arbëreshë, tutt’oggi parlata dalla popolazione. “La nostra idea è quella di costruire una rete di realtà locali di grande interesse come questa”, dichiarano le due curatrici, “partendo dalle connessioni tra questo comune e gli altri di lingua arbëreshë che distano pochi chilometri l’un l’altro e che continuano a tramandare di generazione in generazione questa specificità”. Il programma comprende varie tipologie di attori sociali, dai cittadini alle scolaresche, da geografi e antropologi ad artisti in residenza (al momento Giuditta Nelli, Elena Bellantoni e Violeta Caldres). Fin qui Isola in Rete è riuscito a coinvolgere l’amministrazione comunale e diversi operatori locali (biblioteca, museo, associazioni). Un modo per innescare piccole e circoscritte dinamiche di sistema, in grado di mettere in rete le energie reali del luogo.
Poi c’è il ruolo delle istituzioni, che per Progetto Isole è tutt’altro che secondario. “Abbiamo sempre la necessità di un contributo di avvio da parte delle amministrazioni patrocinanti”, precisano, “ma non è soltanto quello il nostro obiettivo. Riteniamo che la sponsorizzazione privata costituisca una risorsa importantissima, in quanto anello di congiunzione fra attività culturali e realtà socio-economiche di un territorio”. Così, ottenere che commercianti o imprenditori locali s’impegnino con minimi contributi a sostenere manifestazioni culturali “significa che la cultura e l’arte non restano distanti e accessorie rispetto a una realtà sociale, ma che al contrario ne individuano le risorse, ne valorizzano le caratteristiche e lo sviluppo”. A tutto questo si sommano lo sforzo dell’autoproduzione e, infine, l’adesione alla campagna e alla lista di Addio pizzo, una scelta di responsabilità sociale che è anche un progetto di fund raising etico, “perché crediamo che esista un’economia onesta e che da quella debba ripartire tutto in Sicilia”.

helga marsala


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 62. Te l’eri perso? Abbonati!





Info: www.atitolo.it
www.1to1projects.org

www.progettoisole.org


[exibart]

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