CAP.
2. GLI SPAZI PROGETTO, II
Milano,
Bologna, Roma. Dall’ex studio di un artista a una grande casa borghese,
passando per un ex forno in periferia. Seconda tappa alla scoperta dei non
profit dotati di spazio…
NOSADELLA.DUE
– bologna
Siamo in pieno
centro, nel bel mezzo di una strada che ospitava un complesso ecclesiastico. Al
posto di un ex monastero c’è oggi un palazzo storico. Qui sorge uno degli
art-space italiani più attivi del momento. Era il 2007 quando Elisa Del Prete,
lasciatasi sedurre dal dilagante non profit style, decise di lanciarsi in
questa avventura. È lei, col suo background di curatrice e giornalista, ad
avere ideato Nosadella.due, mantenendo un occhio attento agli standard
internazionali di livello.
L’ostacolo
principale, quello relativo all’individuazione di una location e all’impegno economico che ne
deriva, viene bypassato in origine: avere a disposizione una splendida casa
privata, grande 250 mq, libera e centralissima, non sarà tutto, ma è di certo
un ottimo incipit. “È la casa dove sono nata e cresciuta e appartiene alla
mia famiglia da oltre due generazioni”, racconta Elisa. “A suo tempo è stata anche una
pensione in cui mia nonna ospitava attori, sportivi, professori, quindi
studenti dell’università”.
È in questo
luogo, pregno di memorie storiche e affettive, che prende vita una sorta di
crocevia per talenti creativi, un posto nato con la vocazione per l’ospitalità,
l’accoglienza, gli scambi intellettuali.
Nosadella.due è
innanzitutto uno spazio per residenze. Artisti e curatori di tutto il mondo
arrivano a Bologna, ci restano da uno a tre mesi, vivono nella grande casa di
Elisa e qui sfornano progetti pensati per la città, capaci di coinvolgere
luoghi pubblici non deputati all’arte e di attivare link con spazi e soggetti
esterni.
Dal quartier generale
di via Nosadella prendono forma processi creativi destinati a svilupparsi nel
segno del coinvolgimento sociale e urbano.
Elisa Del Prete, ci sono Giusy Checola, scenografa, e Francesca Cigardi,
storica dell’arte.
Tra i progetti
realizzati, alcuni sono particolarmente inerenti alla mission di Nosadella.due,
orientata verso public art e arte relazionale. La finlandese Heidi Lunabba, per esempio, ha ideato un
progetto di arte partecipata in città, in collaborazione con il Gender Bender
Festival 2008: “Con Studio Vilgefortis”, racconta Elisa, “l’artista ha messo su un salone
da barbiere ambulante per offrire un servizio di temporanea ‘alterità’ alle
donne”. Un lavoro
che ha dimostrato come fosse possibile entrare in contatto con il pensiero e le
abitudini delle persone, infiltrarsi nella loro quotidianità. Obiettivo centrato,
nonostante la sua Bologna le appaia oggi “conservatrice, restia al dialogo,
barricata nelle proprie convinzioni e ostile verso ogni manifestazione
puramente creativa”.
E ancora, nel 2009,
l’esperienza delle Torri Contemporanee, in cui Beatrice Catanzaro, Søren Lose e Andrea Nacciarriti hanno progettato interventi per
le facciate di tre torri della città. Ancora una volta, un tentativo di
modificare l’abituale percezione degli spazi urbani attraverso lo sguardo non
convenzionale dell’arte contemporanea. Trasformare l’ovvio, i luoghi
conosciuti, i paesaggi distrattamente attraversati grazie a landmark imprevisti e appositamente
concepiti.
I canali con cui si
finanziano le attività di Nosadella.due sono molteplici, nessuno certo o
costante: una piccola banca locale per i primi due anni, alcuni sponsor
tecnici, il Comune e la Regione, a cui vengono annualmente presentate richieste
di finanziamento.
Gulbenkian, FondsBkvb, Paltform Garanti, Art Today a Plovdiv o Uqbar a
Berlino), con istituti italiani all’estero o con ambasciate straniere in
Italia. Sempre vigili anche sul fronte dei grossi bandi pubblici, come nel caso
dell’Ecf, della Fondazione Anna Lindh e della Comunità Europea, “anche se
senza grandi risultati”.
Essenziale, per
artisti e curatori ospiti, la capacità di sposare una filosofia low budget:
poche pretese in fatto di soldi, nel totale rispetto della professionalità. “Credo
che l’artista”,
puntualizza Elisa, “debba confrontarsi anche con situazioni in cui è
richiesto di creare grandi opere con pochi mezzi. Noi cerchiamo comunque di
garantire sempre la copertura delle spese e di fornire occasioni per la
crescita professionale degli artisti”.
Il patrimonio
culturale che deriva da simili esperienze è altissimo. Ma altrettanto
straordinario è quello puramente umano, che ogni residenza regala a chi ospita
e a chi è ospitato. “Magdalena Ujma e Annamri Vanska sono due curatrici di
grandissima professionalità, con cui mi sono confrontata/scontrata
quotidianamente. È stato significativo lo scambio tra loro e alcuni artisti
italiani, con cui organizzammo alcuni studio visit: il loro sguardo, per lo più
ignorante in fatto di art system italiano, è stato davvero illuminante”. I ricordi di Elisa prendono
subito una piega affettiva, scivolando verso toni nostalgici: “Negli ultimi
giorni di residenza Magda era diventata insofferente, mancava gli appuntamenti,
ci lasciava la sera per starsene a casa, sembrava intollerante verso ogni cosa.
Subito dopo il suo rientro ci scrisse che era incinta. Proprio pochi giorni
prima, a Bologna, si era parlato del suo desiderio di avere figli ma della
difficoltà di prendersi questo impegno con un lavoro come il nostro… Da
allora, Helenka, la meravigliosa bambina che ha avuto, è come se fosse nata qui
a Nosadella.due. Non ci si scrive mai senza parlare di lei”.
26CC
– roma
A fine 2007, in
pieno periodo di rivalutazione culturale e urbanistica del quartiere Pigneto,
prende vita un nuovo project space, tra i protagonisti del costituendo art
district. Qui, una serie di locali, bar, gallerie, studi di artisti e designer
e spazi per l’arte hanno cominciato a sorgere negli ultimi anni. Ed è proprio
al numero 26 di via Castruccio Castracane, dentro un ex forno, che nasce 26cc,
prima realtà non profit della zona, capitanata da un plotoncino compatto ed
eterogeneo: tre critici/curatori (Cecilia Casorati, Sabrina Vedovotto e
Gabriele Gaspari) e sei artisti (Alessandra Casalena, Valentina Noferini, Luana Perilli, Silvia Giambrone, Mauro Romito, Andrea Liberati).
L’idea è quella di
mettere in piedi un team di lavoro trasversale, democratico, orizzontale, che
punti sulla discussione e il confronto aperto, e che si svincoli da sterili
distinzioni di ruolo. “Si tratta di andare un po’ oltre la logica autoriale
e personalista che caratterizza la pratica artistica e curatoriale nel sistema
italiano”, ci
spiegano.
La squadra, dopo
quasi tre anni, è infatti la stessa, ma “passata una fase iniziale di
assestamento, ci siamo aperti di più a progetti esterni, che favoriscono una
maggiore vivacità e dinamizzano le posizioni anche all’interno del gruppo”. E per uno spazio che nasce
strutturandosi in termini dialogici e cooperativi, la capacità di creare
relazioni resta un punto di forza. Sia sul piano locale che su quello
internazionale. La formula è vincente: costruire spazi di progettazione
condivisa, creare piattaforme di dibattito critico, intavolare questioni sulla
stessa natura del non profit e le variazioni implicite al sistema dell’arte.
“Abbiamo iniziato
un dialogo con altri spazi europei, a partire da una conferenza organizzata a
Roma nel 2008, che sta portando a importanti collaborazioni nell’immediato
futuro e non”, ci
raccontano. “Con Space di Bratislava, ad esempio, parteciperemo alla
Crazycurators Biennale a settembre 2010 come co-organizzatori, dopo uno scambio
che ci ha visto ospitare un loro progetto (Nomadspace, giugno 2008), con
l’opportunità di presentare i nostri studiovisit presso di loro nell’aprile
2009”.
Anche la
programmazione di 26cc risente fortemente di tale impostazione. Mostre,
certamente, ma non solo. Dibattiti, incontri, momenti di riflessione e di
approfondimento su temi strategici, workshop, talk: un palinsesto dinamico,
pensato per far incontrare le persone e consentire, in un clima rilassato, la
genesi di pensieri mobili, innovativi, da scambiarsi e porgersi senza barriere.
“Durante le
giornate della conferenza internazionale ‘Politiche’, per esempio”, ricordano Sabrina e gli altri,
“è stato molto piacevole trovarci la sera a casa di Cecilia a chiacchierare,
a raccontarci esperienze e problematiche più o meno uguali per tutti… Ma è
stato altrettanto divertente osservare come gli stranieri che stavamo ospitando
apprezzassero la nostra mozzarella di bufala o le nostre varietà di pasta!”.
E il futuro? Ancora,
e sempre di più, il concetto di scambio orienta il lavoro e gli obiettivi di
immediata realizzazione, come nel caso della rassegna Video Progetto, realizzata in collaborazione con
Grand Union di Birmingham e pensata per lo spazio romano e per quello inglese;
o come il festival di performance, ancora in via di definizione, ideato insieme
a Lee Wen e altri performer di Singapore.
Le finanze, manco a
dirlo, sono risicate e di difficile reperimento. Si fa fatica ad andare avanti
e a sostenere la qualità con le poche risorse a disposizione. “L’associazione,
da quando è nata, è in regime di autofinanziamento”, ci spiegano. “Abbiamo potuto
contare su un consistente finanziamento privato, con il quale stiamo ancora
pagando le spese generali (affitto, bollette) ma perlopiù siamo noi stessi a
mettere soldi in cassa”. Il tentativo è allora quello di spingere sul versante finanziamenti
pubblici, soprattutto nella speranza di poter avviare dei programmi ben
strutturati di residenze.
Se chiediamo loro di
azzardare un primo bilancio, la sensazione è che ci siano un grande entusiasmo
e molta energia da spendere; ma certo non mancano “i momenti di forte
scoramento, nei quali ci troviamo a far fronte a difficoltà economiche
piuttosto serie”,
ammettono. “Dal punto di vista della strategia la nostra grave lacuna
risiede nella difficoltà di reperire fondi. A questo stiamo lavorando per
cercare di continuare a sopravvivere”.
A dare la spinta al
gruppo è la consapevolezza che “spazi come il nostro hanno l’onere e l’onore
di poter fare ciò che per diversi motivi il sistema dell’arte stenta a fare.
Non siamo un’alternativa dialettica al sistema, ma un diverso strato, in cui è
possibile dedicare più spazio al dialogo. È importante porre delle domande,
piuttosto che pretendere risposte. Ed è ciò di cui l’arte in Italia ha bisogno:
una maggiore stratificazione, la possibilità di esprimersi prima e oltre le
logiche di mercato, rivendicando alla creatività quell’aspetto politico che la
contraddistingue, quella capacità che l’arte e l’espressione creativa hanno di
cambiare la vita di ognuno”.
BROWN
– milano
In principio era Brown
Magazine,
progetto editoriale online, con un’impostazione speculativa e un taglio
creativo decisamente originale. Una rivista digitale, priva di pubblicità,
bilingue (italiano/inglese) e con cadenza trimestrale, pensata come puro spazio
di approfondimento intorno a temi importanti: spiritualità, alchimia, arte
popolare, metafisica. E poi l’arte contemporanea, orizzonte e motore del
progetto, fin dal primo numero qualificatosi, esso stesso, come una sorta di
operazione artistica in forma di luogo di conversazione e di oggetto (virtuale)
da sfogliare.
Era l’inizio del 2008
e a ideare e coordinare Brown Magazine c’erano giusto due artisti, Luca Francesconi e Luigi Presicce, affiancati da Valentina Suma; a
curare il concept grafico un altro artista: Paolo Gonzato.
Fin qui l’antefatto.
Al secondo numero, però, una novità importante: dopo pochi mesi Brown
conquistava una nuova, ulteriore identità. Nasce così, a giugno 2008, Brown
Project Space, spazio espositivo con un format curatoriale e una chiara volontà
indagativa. La riflessione serrata intorno ai temi di cui sopra prosegue, ma
stavolta secondo la più “tradizionale” formula espositiva: interventi efficaci,
minimali, adatti al piccolo spazio, concepiti come exempla formali o costruzioni
linguistiche derivate da una ricerca teorica ininterrotta.
Lo spazio, inserito
nell’interrato di un palazzo d’inizio Novecento, in un’area culturalmente
sprint di Milano (Porta Venezia), era qualche anno fa lo studio di un altro
artista,
invece, qui aveva sede una fabbrica di scatole.
La programmazione ha
alternato personali e collettive, quasi sempre con nomi di giovani, qualcuno
appena affacciatosi sulla scena nazionale o internazionale, qualcuno con una
carriera avviata: Richard Clements, Francesco Barocco, Giulio Frigo, Jacopo Miliani, Alessandro Piangiamore, Emre Hüner, Jonatah Manno, Francesco Arena… Una selezione che rivela un
taglio e una direzione precisi, oltre che una qualità sempre alta. Tra gli
ultimissimi progetti, la collettiva L’uomo ridotto, in cui, partendo da
un’antropologia naïf, il lavoro di artisti giovani veniva accostato a quello di
colleghi molto noti e a oggetti trovati. Un progetto colto, sostenuto da uno
sguardo storico-antropologico e sospeso tra indagine sul sistema dell’arte e le
sue migliori vie di fuga, e indagine intorno all’uomo e al suo rapporto con
l’assoluto.
Accanto alle mostre e
all’esperienza della rivista si sono avvicendate altre attività di varia
natura, come il progetto musicale di Paul La Brecque, in collaborazione con Hundebiss
Record, o la presentazione di un progetto editoriale della Galleria Comunale
d’Arte Contemporanea di Monfalcone, in occasione della mostra New Italian
Epic.
Tra i primissimi
spazi progetto stricto sensu sorti in Italia, Brown rappresenta un esempio felice di
proposta culturale e di pratica intellettuale, in un ambito, quello del non
profit, in cui spesso e per fortuna la carenza di budget e le difficoltà
organizzativo-produttive non abbassano la qualità, non smorzano gli entusiasmi,
non conducono a deviazioni di comodo o a compromessi. Realtà che cercano
antidoti contro il generale infiacchimento di cui soffre un sistema, quello
italiano, troppo spesso inadeguato, debole, spento. La forza progettuale,
l’incisività dei contenuti e l’efficienza operativa di spazi come Brown sono
forse, oggi, l’unica risposta possibile a tutto questo.
helga marsala
*articolo pubblicato
su Exibart.onpaper n. 66. Te l’eri perso? Abbonati!
Info: www.nosadelladue.com
[exibart]
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