Costruire la guerra

di - 16 Gennaio 2015
Montare un mobile Ikea è un’impresa? Probabilmente, e fortunatamente per voi, non avete provato a cimentarvi con i 219 pezzi che componevano un britannico rifugio Morrison: un parallelepipedo-gabbia di acciaio e rete metallica in grado di proteggere fino a tre persone in caso di crollo, ma caratterizzato da una messa in opera decisamente ostica, che Jean Louis Cohen, ha scherzosamente definito «molto più difficile di un mobile Ikea».
Abbiamo incontrato l’architetto e storico dell’architettura in occasione della conferenza La guerra come energia creativa: Architettura britannica 1939-1945, settimo appuntamento nell’ambito del ciclo d’incontri Meeting Architecture presso la British School at Rome. Cohen è salito in cattedra da relatore unico, deliziando il pubblico su quel periodo a cavallo tra i Trenta e i Quaranta, difficile per molti versi, ma che in campo architettonico è stati a suo dire «un momento pieno, non solo di ricostruzione».
Dagli insoliti rifugi sotterranei individuali, da creare nel proprio giardino di casa, fino ad una vera e propria città sotterranea progettata dal Gruppo Tecton, capace di ospitare ben 7600 persone e che tuttavia non incontrò il favore dei conservatori, primo ministro Churchill innanzitutto. Un discorso sull’architettura in cui il nostro “l’archi-storico” non è stato avaro nell’accennare i risvolti più squisitamente artistici, con Henry Moore e i bozzetti prodotti quando le stazioni della metropolitana londinese divennero ampi ricoveri, le illustrazioni pubblicitarie – magari incitanti alla salvaguardia con un bel bunker personale – o l’uso del camouflage, quantomai interconnesso ad una matrice pittorica.
Oltre a costituire evento di per sé, la conferenza è stata una sorta di preview ad Architettura in Uniforme. Progettare e costruire per la seconda guerra mondiale, mostra curata dallo stesso Cohen per il Maxxi di Roma (fino al 3 maggio 2015). In realtà nella Capitale l’esposizione incontra il suo terzo tempo, che segue le tappe di Montreal e Parigi; con l’occasione pertanto non poteva mancare una versione “remix”, arricchita di testimonianze specificamente italiane, con la condivisibile scelta di «materiali italiani iniettati e non in una sezione a parte», come spiega Cohen in sede di presentazione. Giusto per inquadrare meglio il periodo, per restituirne un punto di vista più vicino agli italiani, e pure per essere un po’ (legittimamente) ruffiani verso sede, città e nazione ospitanti, suvvia.
Quattordici sezioni quantificano già da sole il peso (in tutti i sensi possibili) di questa mostra. Che indubbiamente è di “presenza”, con un elevato quantitativo di materiali tra oggetti, disegni, fotografie, manifesti e video; alcuni di questi poi non te li aspetteresti nemmeno, come la mitica Vespa, il gioiello della Piaggio, contingenza bellica diventata poi icona della rinascita post-bellica. Vespa a parte, l’odore di nozionismo vince di misura quello delle pareti in compensato, corroborato dalla miriade di testi sparsi sulle pareti in più punti. Per carità, impossibile permettersi di attaccare in senso negativo un lavoro storiografico faraonico quanto ineccepibile, tuttavia quando il troppo messo sul piatto pare stroppiare – e il discorso farsi strenuamente puntiglioso – si rischia il paradosso di lasciare al visitatore ben poco da portarsi a casa e su cui riflettere organicamente. E per conto loro le pannellature grigio scuro dell’allestimento, perfette ma strutturate come un grosso labirinto, non sempre incentivano una messa a fuoco precisa delle singole tematiche, anzi.
L’operazione labirinto però è anche foriera di indubbi pregi, che si producono in spazi intimi all’interno dei quali alcuni pezzi possono essere letteralmente ammirati, come i video dell’Istituto Luce sulle città italiane colpite dagli alleati; e quindi relazionati a reperti/media differenti, ad esempio gli scatti di Federico Patellani, dove Milano e Palermo sono capitali ferite dalle bombe, e Genova mostra la Cattedrale di San Lorenzo ancora parzialmente ricoperta del muro eretto appositamente per evitarne danneggiamenti.
Nel concetto stesso di guerra è compreso l’obbligo di ammortizzarne i contraccolpi più o meno diretti, e la dettagliata “Guida per la casa in tempo di guerra” made in USA nasceva proprio per quello. Se stuoli di casalinghe americane venivano quindi virtualmente arruolati per mezzo di regole piuttosto restrittive, il governo italiano non fu meno abile nell’attivare il coinvolgimento popolare, incensando i benefici dell’autarchia in materiali come vetroresina e amianto, utili dall’edilizia agli oggetti di tutti i giorni; o nelle innovative fibre sintetiche che hanno sconvolto e riscritto la moda, entrate nell’universo pubblicitario grazie anche ad un sempre poco ricordato Marcello Dudovich, presente con alcuni bei lavori litografici. Sottoprodotto dell’autarchia, e della necessità di convertire tutto l’acciaio disponibile alla produzione di armamenti, è stata la bicicletta Littorina in legno e alluminio firmata dalle Officine Vianzone di Torino, tra gli oggetti senza dubbio più curiosi e indicativi di un’epoca; poco distanti i progetti in cemento armato di Le Corbusier per le Case Murondins, al contrario della Littorina tradizionalisti per materiali costruttivi, quanto innovativi per concezione funzionale-estetica.
E gli artisti? Alcuni di loro erano sempre a galla, e particolarmente sul pezzo se di nome fanno Mario Sironi, qui con una tempera su carta volta ad enfatizzare nel suo stile lineare, caro al Ventennio, il rapporto bilaterale tra forza militare e forza lavoro; quest’ultima in seguito caldamente esortata tramite un manifesto opportunamente calibrato tra testo e immagini – siamo in piena Repubblica Sociale Italiana – ad emigrare verso la Germania, così da risolvere gli italici problemi di “miseria, povertà e caos”.
Un’architettura che in extrema ratio ha celebrato la memoria dei caduti, in Italia il monumento di Fiorentino, Aprile, Calcaprina, Cardelli, Coccia, Perugini e Basaldella, dedicato ai trucidati delle Fosse Ardeatine a Roma, e quello dello studio BBPR nel cimitero monumentale di Milano. Due memoriali che, coadiuvati dalla buona scelta allestitiva di alternare progetti/immagini d’epoca a visioni contemporanee, risvegliano l’idea di un’architettura a suo modo capace di essere storia trascendente il tempo. Anche quello della guerra.

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