Col cuore in pace per una bella stagione mai realmente decollata, meglio spulciare tra gli eventi più invitanti di fine estate. Elenco delle inaugurazioni alla mano, l’occhio si ferma sul nome di uno dei borghi più noti del levante genovese: Camogli, cittadina che oltre ai caratteristici panorami da fotografia e tanta voglia di un tuffo in mare, dal 12 al 14 settembre ha offerto ai suoi visitatori le opportunità culturali e ricreative del primo Festival della Comunicazione. Come da copione l’occasione ha smobilitato giornalisti di svariate testate, richiamando anche l’attenzione ben più cinica di quelli che lavorano gomito a gomito con l’arte contemporanea, attirati sulla costa ligure da una collettiva a tema ricca di nomi di peso, allestita presso la Fondazione Remotti.
“Da Warhol a internet” (fino al 31 ottobre) è un titolo poco costruito e al tempo stesso pretenzioso, che senza troppi arzigogoli verbali – comprendendo nella stessa frase Andy Warhol, simbolo di un iconologismo costruito sulla forza comunicativa dell’opera d’arte, e internet, il medium divulgativo più popular in senso assoluto – genera una sorta di contrazione mentale, capace di polverizzare la distanza di circa cinquant’anni che separa i criteri della comunicazione odierna dai prodromi dell’avanguardia pop. Perché se è vero che in tempi non sospetti Warhol fu la cassandra premonitrice dei famosissimi quindici minuti di celebrità, le potenzialità di internet sembrano aver corso sulla sua stessa lunghezza d’onda, avverandone la profezia anche con metodi anche molto più massicci del dovuto; basti pensare ai social network o ancora meglio ad un sito come Youtube, che di nuove “celebrities” ne sforna a bizzeffe e spesso per più di una manciata di minuti.
Warhol e company, un gruppo decisamente eterogeneo di artisti e di pezzi tutti provenienti della collezione Remotti. Un nugolo di partecipanti molto differenti tra loro e da sistemare in uno spazio unico, partendo da una tematica piuttosto ampia/vaga. Ovviare al rischio del “mischione” è tassativo, e in sostanza la curatrice Francesca Pasini c’è riuscita, intervenendo con una logica espositiva non lineare, un po’ da gioco dell’oca, dove l’aspetto singolare e collettivo dei lavori presenti costringe a spostarsi avanti e indietro, seguendo quindi più di una direttiva.
Starter è Francesco Jodice, che dà il benvenuto con un paio di scatti di Buenos Aires in cui la comunicazione segue una logica a più piani, propagandosi dai simboli commerciali alle pagine scritte nei libri gettati in un cassonetto e sfogliati da un uomo, per finire poi nel cartello pubblicitario di un collegamento internet a basso costo. Da internet passando per gli scatti di tagliente ironia transgender di Urs Lüthi, per un sempre ponderato Luigi Ghirri che ritrae in senso pratico-concettuale l’area del modenese, e per il fascinoso Olivo Barbieri, che traccia un’immagine di acquisita bellezza moderna dentro una Pechino under costruction, tra luci elettriche e suggestivi lampi.
Comunicare la città, città dove la comunicazione (e anche la sua negazione) assume una formula al limite del rituale. Fuori da questa esistono aree di transito perenne, i “non luoghi” della socialità mordi e fuggi immortalata da Hans Op de Beeck nella quasi commovente (an)esteticità di un autogrill deserto, con un superbo gioco di ombre e luci, immobilità e mobilità. Un fotogramma che rende l’ideale comunicativo un concetto universalmente sospeso tra attività e inattività, in più con una posizione perfettamente speculare – in senso fisico non meno che ideologico – alla Pechino di Barbieri.
Simboli e parole campeggiano über alles nelle insegne, oppure possono costruire immagini stereotipate che passano di mano in mano quotidianamente, riconvertibili con un senso tutto personale in spray su tela come l’Half Dollar di Franco Angeli; oppure ancora diventano un ibrido tra insegna e stereotipo, da assumere nelle dosi massicce prescritte negli anni Sessanta da Warhol con la mitica serigrafia della Campbell’s Soup. Senza voler deprezzare gli altri artisti presenti, Angeli e Warhol in questo contesto artistico-comunicativo meritano un occhio ancor più attento: due differenti visioni estetico-divulgative nell’orbita pop, il primo compulsivamente critico, il secondo molto più finemente (e fintamente) scanzonato.
Visioni non troppo concilianti che trovano un parziale terreno comune nella Marilyn Monroe dipinta da Warhol nel 1985, con quei tocchi di acrilico totalmente personali e un uso dei dettami pop quasi fatto apposta per annullare l’ideale pop, o quantomeno per estrarre da esso tutta la gravità del suo modus comunicandi, il peso psicologico di un’icona e tutte le inquietudini perse in quel sorriso un po’ contrito e mai stato così tanto di circostanza. Bella e solitaria, sormontata da una lunetta, in una posizione che la stessa curatrice definisce «sacrale», provocatoria quanto l’Half Dollar, immagine seriale “unica” nelle sue imprecisioni e allegoria di mercificazione al pari di quest’ultimo. Pronta a presentare i sintomi di una comunicativa convintamente spinta oltre una blanda classificazione pop, come l’Half Dollar.
Chi è meravigliosamente immune – e pure fisicamente un po’ defilato – da tutto questo bailamme visivo è Sol LeWitt, che trancia le comunicazioni fiorentine semplicemente ritagliando con precisione l’Arno da un’aerofotografia bianco/nero del capoluogo toscano. Minimal e concreto, tanto da far capire che solo escludendo qualcosa se ne può mettere in risalto la presenza. E che questa formula di conseguenza la si può applicare ad ogni forma di comunicazione.