DAKAR SENZA PARIGI

di - 4 Maggio 2008
Appuntamento a Dakar nel quartier generale della Biennale africana, che per un mese sarà allestita nella capitale senegalese. Nella sua stanza, al primo piano di avenue Albert Sarraut al civico 19, Ousseynou Wade -segretario generale al suo quarto mandato- sottolinea il crescente interesse a livello internazionale per l’arte africana contemporanea, sancito dal debutto del primo padiglione africano alla 52esima Biennale di Venezia. Inciampare nei soliti cliché, fra contraddizioni e stereotipi, sarebbe troppo facile. L’Africa, vista da vicino, si rivela una fonte di sorprese. E gli artisti africani, ognuno col proprio linguaggio, autonomo e genuino, sono interpreti straordinari di rinnovate energie.

Cosa pensa del fatto che la diffusione dell’arte africana sia spesso veicolata da collezionisti privati, come Pigozzi con 100% Africa o Sindika Dokolo con Check List. Luanda Pop, primo padiglione africano alla Biennale di Venezia nel 2007?
Penso che la diffusione attraverso le collezioni private sia già una buona cosa, essendo sottinteso che non abbiamo ancora trovato dei circuiti sistematici, come è stato per la rassegna Africa Remix, curata da Simon Njami. Sicuramente, per Sindika Dokolo è stata un’opportunità favolosa quella di presentare a Venezia la sua collezione che ha sede a Luanda, in Angola. Ci tengo, però, a fare una precisazione molto importante: l’idea della presenza africana a Venezia è nata proprio dall’incontro del direttore, Robert Storr, con la biennale di Dakar nel 2006. Visitando la nostra manifestazione, Storr ha deciso di coinvolgere direttamente alcuni artisti africani [tra cui Brahim El Anatsui e Frédéric Bruly Bouabré, le cui opere sono state esposte alla mostra internazionale, N.d.R.]. Quanto al padiglione africano, c’è stato un call per candidature a cui hanno risposto Fernando Alvim e Simon Njami, i due curatori della mostra di Sindika Dokolo che, alla fine, sono stati selezionati.

Qual è il ruolo di Dak’Art nello scenario dell’arte contemporanea?

Bisogna fare una distinzione tra l’ambiente locale e quello internazionale. Relativamente a quello locale, il ruolo di Dak’Art è più che mai positivo e importante. Molti artisti africani non sognano altro che essere presenti alla rassegna, perché è un trampolino di lancio per far conoscere le loro opere ed essere introdotti alla critica internazionale, nonché a un pubblico più vasto. Dak’Art, infatti, si sta configurando sempre più come un appuntamento per esperti di arte visiva di tutto il mondo, consapevoli di trovare qui cose diverse da quelle che possono vedere a Venezia, Kassel, Lione, Berlino, San Paolo. All’edizione di due anni fa erano presenti anche il commissario di Documenta, quello della Biennale di Città del Capo e della Biennale di Sharjah, e molti altri fra artisti, critici e addetti ai lavori.

In che modo la Biennale di Dakar si relaziona con altri eventi internazionali?
Molti artisti presentati alla nostra rassegna hanno avuto l’opportunità, successivamente, di essere invitati ad altri eventi. Ad esempio, nell’ambito della Settimana dello sviluppo l’Unione Europea ha presentato una selezione delle opere della Biennale di Dakar. L’arte africana, che era vista come qualcosa di marginale, si sta rivelando agli esperti come un’arte della propria epoca che indaga con gli occhi del presente. Un’arte che non passa il tempo a ripetere se stessa attraverso le statue e le maschere, leitmotiv della tradizione artistica.

Come avviene la selezione degli artisti?
Con il comitato internazionale di selezione facciamo un call per candidature diretto a tutti gli artisti africani interessati a partecipare alla biennale, invitando loro a inviarci un dossier completo di curriculum, scheda tecnica delle opere, eventuali testi critici e cinque immagini in formato elettronico. Dossier che vengono esaminati e sottoposti al giudizio della commissione. Quest’anno abbiamo ricevuto 317 dossier, dei quali solo trentacinque artisti di diciassette Stati africani -diaspora inclusa- sono stati ammessi a partecipare all’esposizione internazionale e tredici al Salone del disegno. Alcuni di loro sono già conosciuti, altri invece sono esordienti. Fattore determinante come criterio di selezione è sempre stata la qualità del lavoro e l’originalità.

È prevista una sezione dedicata agli artisti stranieri?
Nel 1992 è stata fatta una biennale di taglio internazionale che includeva artisti non africani, ma poi è stato deciso di focalizzarsi su quelli africani, perché non sono ancora sufficientemente rappresentati sulla scena internazionale. Comunque, oltre agli spazi del circuito ufficiale, ci sono manifestazioni periferiche come Contour o Dak’Art Off, coordinata dall’italiano Mauro Petroni, che si svolgono nei vari quartieri della città (in gallerie private, istituti, hotel…) dove anche gli artisti stranieri sono benvenuti. Proprio attraverso questi spazi aperti Dak’Art mantiene il proprio carattere internazionale.

Quali sono, invece, i luoghi ufficiali della rassegna?
L’esposizione internazionale avrà luogo al Museo Ifan, alla Galleria Nazionale d’Arte, alla Casa della Cultura Douta Seck e alla Galleria Le Manège.

Qual’è il budget per organizzare questa edizione?
Questa manifestazione nasce da un progetto statale; abbiamo anche importanti partner internazionali come l’Unione Europea, l’Organizzazione Internazionale della Francofonia, la Cooperazione francese, la Comunità francese del Belgio, la Fondazione Prince Claus, Africalia… Nonché contributi simbolici dall’Ambasciata di Spagna. Cerchiamo infatti finanziamenti attraverso le istituzioni nazionali. A ogni modo, il budget è piuttosto modesto -considerando le spese di trasporto delle opere, il viaggio e l’ospitalità degli artisti, le autorizzazioni ecc.- e si aggira intorno ai 60 milioni di CFA, meno di un milione di euro.

Il magazine “Afrik’Arts” nasce come organo di diffusione della biennale?
La rivista è nata più che altro nel quadro della manifestazione, che prevede anche workshop e atelier creativi. Abbiamo ritenuto importante, infatti, seguire l’attività di riflessione sull’arte africana anche durante la pausa tra una biennale e l’altra, riportando inoltre il punto di vista sull’Africa di critici e studiosi internazionali. Purtroppo fino a oggi è stato possibile realizzare solo sei numeri a partire dal primo, uscito nell’agosto del 2006. Ma speriamo di poter riprendere il lavoro di riflessione a biennale conclusa.

Che tipo d’impatto ha la rassegna africana sul pubblico locale?

Al momento preferisco non parlare di impatto, perché manca un criterio oggettivo per misurarlo. La presa sul pubblico c’è per tre ragioni principali: intanto perché alla base c’è una strategia di comunicazione, poi perché soprattutto per quanto riguarda la sezione Off la popolazione è stimolata a entrare in contatto con il mondo dell’arte, perché le mostre sono gratuite e organizzate un po’ ovunque nella città. Questo incentiva la visita di gruppi organizzati, scolaresche e famiglie, soprattutto durante il weekend. La terza ragione è proprio il coinvolgimento di gallerie e collezionisti privati, che diventano più attivi in occasione della biennale.

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a cura di manuela de leonardis


dal 9 maggio al 9 giugno 2008
Dak’Art 2008 – Biennale dell’Arte Africana Contemporanea
Sedi varie, Dakar
Info: info@biennaledakar.org; www.biennaledakar.org

[exibart]

Nata a Roma nel 1966, è storica e critica d’arte, giornalista e curatrice indipendente. Con Postcart ha pubblicato A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (2011), A tu per tu con i grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (2013); A tu per tu – Fotografi a confronto – Vol. IV (2017); Cake. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (2013), progetto a sostegno di Bait al Karama Women Center, Nablus (Palestina). E’ autrice anche Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (ali&no, 2015) e Isernia. L’altra memoria – Dall’archivio privato della famiglia De Leonardis alla Biblioteca comunale “Michele Romano” (Volturnia, 2017).

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