Cosa fu il Novecento se non il tentativo di spezzare il tempo, la presunta smorfia di quell’obiettivo di autarchia che disseppellì le forme temperate della classicità?
Il fascismo è spesso solo considerato nella sua accezione politica, e nello studio dell’arte si traccia il movimento con un lineare «rappattumare i cocci, come se si dovesse rigirare la manovella della moviola all’indietro, portando i vari frammenti a ricucirsi» (Renato Barilli, Storia dell’arte contemporanea in Italia). Ma osservando con attenzione le sale allestite a Forlì, nel complesso monumentale dei Musei Civici di San Domenico – con la mostra “Novecento. L’arte tra le due guerre” (fino al 16 giugno) – si coglie una retorica che recuperò le istanze del Quattrocento e Cinquecento, ma seppe farlo alla luce di una maestria compositiva che al colore spesso delegava la retorica del regime, celebrata in narrativa da Massimo Bontempelli ma anche, in linea, al Realismo Magico del tedesco Franz Roh.
Un’occasione che richiama alla memoria anni nazionalisti di cambiamento interno e censura certamente, ma a cui vale la pena accostarsi ricordando ciò che la storia scrisse.
Di fronte al paludato universo che i nostri vicini europei proponevano, vezzeggiando la moda del Costruttivismo russo o del sempiter démodé Marc Chagall, l’estro e la cultura varia dell’ Italia chiudevano a piombo intorno ad una donna che seppe essere la signora dell’arte italiana e l’amante di Benito Mussolini: Margherita Sarfatti; firma della biografia del duce, redattrice dell’Avanti della Domenica poi collaboratrice del Popolo d’Italia, la carismatica Sarfatti riuscì a riunire intorno a sé – nell’elegante dimora di Corso Venezia a Milano – gli artisti dell’epoca, quei Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gianluigi Malerba, Piero Marussig, Ubaldo Oppi, Anselmo Bucci e Mario Sironi che formeranno poi i sette del Novecento italiano.
Non nuova al potere magnetico degli artisti, la Sarfatti cominciò giovanissima a tessere rapporti culturali con le personalità dell’epoca: soprattutto conobbe Boccioni e l’avanguardia futurista. Dama lucida e influente rassegnò le dimissioni contestualmente alla nomina di Mussolini come direttore dell’Avanti!, ma poi, ironia della sorte ne divenne l’amante. La storia segue il suo ciclo, in un periodo dove l’arte e la politica infittivano le conversazioni nei salotti dai pavimenti a scacchiera, dove robusti posaceneri in vetro ingentilivano l’intorno delle sedie in macramè, mentre tutto intorno là fuori i fumi dell’ industria ammantavano i palazzi alveolari appena sorti.
Più di 500 pezzi per questa mostra italiana, che a Fernando Mazzocca, Antonio Paolucci, con Stefano Grandesso, Maria Paola Maino, Ulisse Tramonti, Anna Villari e con il sostegno della Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì in collaborazione con il Comune di Forlì, deve la sua luce, tra memoria storica e reintegro artistico.
È una mostra pensata con grande maestria compositiva, non tanto per le sale (che forse con la volontà di far immergere lo spettatore finiscono per essere degli acquari), ma per la bravura nel destreggiarsi tra centinaia di prestiti – molti privati – e altrettante eventuali storture nella scelta di un ragionamento centripeto.
Una sfida che si presenta ardita (considerata la vicinanza dei natali di Benito Mussolini, nato a Predappio) ma che subito si chiarisce nelle parole del Presidente della Fondazione (Piergiuseppe Dolcini) che sottolinea come i fasti e la propaganda giammai qui, in questa esposizione, siano la chiave di volta adatta per la lettura delle opere.
Filo di seta che unisce i cardini di questa grande mostra – che ha nel diario di bordo i tableau di Mino Maccari (Serie Dux, collezione privata, Piemonte), e che interfaccia la prospettiva con i recuperati manifesti dell’epoca, gioielli, complementi d’arredo, abiti e calzature (in prestito dal fiorentino Museo Ferragamo), oltre che a documenti originali – la scrittura a pareti lisce, la pesantezza tornita che all’opulenta magnificenza del soggetto deve il suo risultato mosso, come se un’energia latente fosse intrappolata dentro le cornici, tra gli stipiti degli armadi, nell’incavo della torsione delle statue in marmo.
Dall’aeropittura di Tullio Crali, all’impasto grumoso di Renato Guttuso, dalla ieraticità delle figure di Corrado Cagli, ai volti nobili e appena accennati di Massimo Campigli, passando per le maschere lisce di Adolfo Wildt (non nuovo all’esposizione forlivese) e l’abilità scultorea di Arturo Martini, le sale del Museo si susseguono copiosamente riempite, esponendo l’estetica al limite con il regime di Cagnaccio di San Pietro, l’oscuro carnascialesco di Cesare Sofianopulo, il mito di Apollo, de l’Architetto e de Il Filosofo, i rimandi all’espressionismo lombardo di Achille Funi fino alla possanza pittorica di Gino Severini e Mario Sironi che sembrano sintetizzare le parole dello stesso Massimo Bontempelli laddove dice: «inventare miti, favole, storie, che poi si allontanino da lui fino a perdere ogni legame con la sua persona».
Un universo mitico che ricorda le Stanze di Giorgio Agamben, quando intervenendo sulla fabula del Pigmalione inserì l’allegoria come strumento retorico capace di far riemergere ciò che per sua natura è sotterraneo e sfuggente, riportando così il mito al suo naturale terreno di trasmissione storica, salvandolo da quello ben più spettrale della rimozione. Nelle coordinate temporali che la mostra presenta (corredate dal catalogo edito da SilvanaEditoriale) tornano alla memoria gli scritti di Gabriele D’Annunzio cantore eccellente e mondano, che diede un respiro altissimo all’epigrafe voluttuosa dei corpi in torsione dall’estetica classicheggiante che intervallavano pause della Milano bene. Piacere e natura rimangono due anime contrapposte però al giogo della ragione, ma che pure trovano giustificazione se si richiama alla memoria un’intuizione del 1747 di Yves Valois, laddove affiancando il Pigmalion all’Histoire naturelle de l’âme sostiene che mai il pensiero potesse rifarsi alla materia essendo quest’ultima immota, ma non perfettibile. Come Conversazione Platonica il respiro dell’infinito insegna anche qui che non sempre ciò che si mostra corrisponde alla riflessione che lo ha mosso.