In ventiquattro sale al piano nobile di Palazzo Reale a Milano emergono dall’oscurità 150 opere suddivise in diciotto sezioni tematiche che mettono a confronto il simbolismo franco-belga, considerato la culla del movimento, con quello austriaco-tedesco e italiano: declinazioni intorno alla poetica dell’inconscio di una nuova sensibilità che ha travolto tutte le arti dell’Europa modernista, dagli anni Ottanta dell’Ottocento alla vigilia della Prima Guerra mondiale. Si tratta anche di una reazione collettiva al Positivismo, corrente filosofica che considera la scienza, il progresso, la meccanicizzazione dell’industria e il capitalismo materiale come una promessa di felicità terrena. Mettono in discussione il credo scientista filosofi, poeti e artisti, rifugiandosi in un mondo visionario in bilico tra paure, incubi e ossessioni alle soglie dell’invisibile. Complici del Simbolismo sono la letteratura, la musica e la psicologia con L’Interpretazione dei Sogni (1889) di Sigmund Freud, Friedrich Nietzsche e altri filosofi, l’oppio e la tensione verso l’Assoluto.
Promossa da Comune di Milano-Cultura e coprodotta da Palazzo Reale, 24oreCultura-Gruppo 24ore e Arthemisia Group, la mostra “Il Simbolismo. Arte in Europa dalla Belle Epoque alla Grande Guerra” (a cura di Fernando Mazzocca e Claudia Zevi con Michel Draguet, fino al 5 giugno 2016), di taglio enciclopedico, indaga le sfumature del desiderio, le profondità della psiche, l’enigma della vita per avventurarsi negli abissi del mistero, inscenando con un allestimento dark una parata di apparizioni epifaniche di dipinti, grafiche, sculture di oltre 50 artisti, prestati da collezionisti privati, musei nazionali e stranieri, in cui s’insinuano il dubbio e le inquietudini che incrinano l’ottimismo positivista, mito della modernità.
Nel 1886, il poeta Jean Mores pubblica su Le Figaro il Manifesto del Simbolismo, che deriva dal verbo greco Symballo, ovvero “mettere insieme”,”unire”, qualche segno con qualcosa d’altro. È un movimento che intreccia diversi riferimenti culturali, indaga una dimensione onirica, eroica e mitologia, i sensi e il rischio dell’amore erotico. Corteggia la morte con l’esca del peccato. Conduce alla deriva della ragione la celebre raccolta di cento poesie I fiori del male (1857) di Charles Baudelaire, capofila dei poeti maledetti Verlaine, Rimbaud e Mallarmé. Accelera il ritmo nella profondità della psiche la musica di Wagner, Listz e di altri compositori post romantici. Nel 1886 fu tradotto in francese Il mondo come volontà e rappresentazione (1818), di Arthur Schopenhauer, tra i maitres à penser del Simbolismo europeo. Questi e altri idealisti “visionari”, pronipoti del dubbio cartesiano, dell’evoluzione di Charles Drawin, estimatori di Edgar Allan Poe, dei Preraffaeliti e di Gustav Klimt, incendiano tensioni dialettiche, cortocircuiti tra luce e tenebra, bene e male, vita e morte, erotismo e misticismo di una generazione alla ricerca di valori spirituali.
A Palazzo Reale sfilano come icone dell’ambiguità opere sospese tra il visibile e l’invisibile, Arnold Böcklin, Odillon Redon, Gustave Moreau, Pierre Puvis de Chavannes, Fernad Khnopff, Franz Von Stuck, Felicien Rops, Max Klinger, Alberto Martini, Giovanni Segantini, Gaetano Previati, Galileo Chini, Aristide Sartorio, fino ai meno conosciuti Luigi Bonazza, Leo Putz e Vittorio Zecchin.
Se l’Impressionismo è lo specchio di una dimensione dell’esteriorità, che predilige la luce del giorno, le passeggiate urbane tra cafè chantant, i grandi magazzini e scene di vita in cui si celebrano i fasti della società borghese edonista, cullata dai piaceri del lusso, al contrario il Simbolismo si oppone alle estetiche del Realismo, del Naturalismo, eleggendo l’oscurità, le tenebre, la notte luogo ideale di un altrove che riflette una condizione psicologica del turbamento e la volontà di fuga dalla realtà.
Incantano le opere “aedi” delle tenebre rivelatrici di una nuova sensuale estetica onirica, contro le certezze della scienza. Rispecchiano inquietudini i paesaggi notturni, il mare in tempesta, l’acqua come metafora della vita dall’indomabile forza in cui perdersi nel suo moto ondeggiante e vorticoso, dove si custodisce l’origine del mondo. Il Simbolismo celebra non l’angelo del focolare domestico, ma la femme fatale, la sacerdotessa dell’erotismo, nella pittura e nei manifesti pubblicitari degli spettacoli notturni della Ville Lumiere, gli affiches dell’Art Nouveau. Il corpo nudo velato o ritratto di schiena è il soggetto del desiderio di ragazze irregolari all’alba dell’emancipazione, consapevoli del proprio potere erotico.
Ricorre il tema della nascita di Venere dal mare, incatenano lo sguardo le ninfe dei boschi come allegoria della giovinezza. Queste e altre irresistibili donne dal fascino magnetico sono portatrici di messaggi subliminali che incarnano temi dell’amore e della morte. Diavolesse, vergini o baccanti, sirene o valchirie, lussuriose o mistiche, sfingi o sacerdotesse di perversione, tutte sono archetipi di una sensualità pervasiva, seducenti e distruttive al tempo stesso, in bilico tra carnalità e languore, dalle quali ha origine l’iconografia della donna-animale, gorgoni dall’ambiguità erotica: croce e delizia dell’uomo che teme di precipitare nell’abisso delle passioni e della dannazione.
L’esposizione segue un percorso storico, dal fitto intreccio di riferimenti letterali e dall’intento ambizioso nel suo richiamare suggestioni diverse del Simbolismo europeo da interpretare come momento conclusivo dell’Umanesimo, contro una società privata dalla trascendenza che contrappone al materialismo un mondo visionario di altri valori teso verso l’Assoluto dell’esistenza compresa tra la vita e la morte.
Di mostre dedicate al Simbolismo, come alba delle inquietudini della modernità, ne abbiamo viste molte, ma questa vanta un primato, è trasversale, e valorizza analogie e differenze tra le poetiche simboliste straniere e italiane che sono passate dal Realismo alle istanze al confine tra visibile e invisibile. La scuola milanese con Gaetano Previati e Giovanni Segantini, esponenti della pittura divisionista, anticipa il Futurismo. La scuola romana, punta sulla rivisitazione del Rinascimento, lo testimonia Giulio Aristide Sartorio, elogiato dal vate Gabriele D’Annunzio, in mostra con grandi pannelli che rappresentano scene tratte dal monumentale ciclo decorativo Il poema della vita umana, (realizzato per il Padiglione Centrale dei Giardini della Biennale di Venezia del 1907). L’artista romano alle atmosfere cupe e maledette dei simbolisti stranieri, predilige una trasfigurazione eroica e monumentale del Classicismo da Fidia a Michelangelo, del mito in chiave allegorica, secondo una nuova sensibilità. Nel 1910, il genio simbolista Gustav Klimt espone alla Biennale di Venezia: il suo scabroso linguaggio divide la critica e il pubblico, sconcertati dal nuovo stile immorale, bollato come “arte decadente”, disprezzato dai conservatori puristi, che però ha ispirato Galileo Chini e Vittorio Zecchin, in mostra con opere dall’evidente tessitura bizantineggiante klimtiana, come ultimi aneliti di sogni dorati della Bella Epoque, infranti nella mattanza della Grande Guerra.
Jacqueline Ceresoli