Danzare tra parati e porcellane: Diego Cibelli al Museo di Capodimonte

di - 4 Giugno 2021

Da qualche anno, a Napoli, nel Museo e Real Bosco di Capodimonte, ci sono periodicamente in mostra gliIncontri sensibili”: esempi di arte contemporanea s’incontrano e confrontano con quelli dell’arte del passato: quest’anno, è l’opera del giovane Diego Cibelli, con “l’arte di danzare insieme”, progetto espositivo a cura di Angela Tecce e Sylvain Bellenger, a confrontarsi con le antiche collezioni del museo.

Già le sale d’infilata, che si devono attraversare per arrivare alla mostra, ci parlano dei capolavori del passato, alcuni famosi, altri sconosciuti alla maggior parte dei visitatori. Tra questi, tanti “napolitani”: si va dai dipinti su tavola del Duecento, al luminoso spazio dorato di Cicino da Caiazzo, al potente San Severino (di Ignoto) che ci guarda severo e ammonisce con la mano che assolve, alla realistica quotidianità della vita del Santo, nel “San Gerolamo nello studio” del Colantuono, all’intima gioia della Vergine, dipinta da Francesco Curia, in uno spazio sconquassato dall’annunzio della Nascita Divina.

In fondo a questa fila di sale, sulla parete di fronte, esaltata da un’illuminazione tecnicamente avanzata, ha il posto d’onore la Flagellazione dipinta dal Caravaggio. Ma, appena si svolta, a sinistra, nell’angolo, c’è subito un altro capolavoro: la Santa Cecilia di Carlo Sellitto, un pittore napoletano detto caravaggesco, sebbene la morbida musicalità di questo quadro in Caravaggio non si ritrovi affatto.

Dopo questo assaggio delle collezioni di Capodimonte, ecco la mostra degli “Incontri sensibili” di Diego Cibelli, che ci accoglie con l’immagine, su una parete, di Carlo, il primo re Borbone di Napoli e di Sicilia, colui che ha voluto questa reggia, per sistemarvi i capolavori della collezione Farnese, ereditata da sua madre Elisabetta, seconda moglie di suo padre, il re Filippo V di Spagna. Re Carlo aveva sposato, a 26 anni, una ragazzina (prassi comune all’epoca) di soli 14 anni, Maria Amalia, che porta a Napoli la porcellana. La si produceva a Meissen, in Sassonia, dove Maria Amalia era stata ospite a casa del nonno, Augusto il Forte, re di Polonia e principe di Sassonia. Carlo, innamoratosi di questa materia bianchissima e sottile, chiede agli arcanisti, una sorta di maghi dalla arcana sapienza esperienziale, di svelarne il segreto. Così, nel 1743, riesce ad avere quest’“oro bianco” e se ne serve per regali “diplomatici” alle Corti europee.

Ed ecco, in mostra, tazzine e piatti decorati in finissima porcellana e statuine. Tra le statuine, una coppia di satiri ridanciani e un Apollo che spella Marsia, il satiro che aveva osato gareggiare, in una gara musicale, con il dio delle arti: una impari sfida. E, su un tavolo, sotto campane di vetro, in porcellana biscuit, bianche come il marmo, le figurine di personaggi degli antichi miti. L’umanistica arte napoletana, anche nella ceramica, amava rappresentare figure umane, persone. Sullo stesso tavolo, per “l’arte di danzare insieme”, bianchissimi vasi in porcellana di Diego Cibelli riprendono i modelli magno-greci, modificandoli e accentuandone l’elegante slancio. Sono posti in piedi o adagiati sul piano del tavolo e hanno fessure (questa è una capricciosa novità), in cui sono inseriti sottili fogli di rame, che riportano illustrazioni tratte dalle stampe della collezione, conservata a Capodimonte, del conte Carlo Firmian, e dal volume “Le Antichità di Ercolano esposte 1757” (è l’epoca delle borboniche scoperte archeologiche vesuviane), conservato nella Biblioteca Nazionale napoletana Vittorio Emanuele II di Savoia. Su rame, sono anche i dipinti di Carlo Saraceni, qui in mostra, che raccontano avventure di giovani personaggi mitologici: di Icaro, di Ganimede, di Ermafrodito e di re Teseo, che su una nave si allontana lasciando Arianna disperata sulla riva di Nasso.

Ma, sul tavolo, altri vasi di Cibelli hanno una forma fantasiosa, con lunghi bracci che mi ricordano i movimenti aggraziati e sinuosi delle braccia dei danzatori del balletto classico. Il giovane artista, infatti, che ha una figura sottile e diritta e movimenti controllati ed eleganti, mi dice, in proposito, di avere praticato la danza classica. Ma questi bracci in porcellana riprodurrebbero plasticamente anche i vasi sanguigni del corpo umano disegnati nelle stampe raccolte in un preziosissimo volume, “Anatomiae Universae” di Paolo Mascagni (1755 1815), conservato nel Museo di Anatomia dell’Università della Campania e ora nella sala della mostra.

Ma qui a Capodimonte, il capolavoro di Diego Cibelli è il parato di carta, che tappezza interamente la grande sala espositiva. Vi sono riprodotte la immagini digitali delle stampe conservate al Real Museo e nella Biblioteca Nazionale napoletana. Un fitto incastro di immagini di figure umane e di oggetti finemente lavorati: una visione caleidoscopica realizzata con attenta e colta sensibilità.

Tanti sono i personaggi che affollano le pareti ma sono monchi di qualche parte, non c’è nessuna figura intera. Vediamo visi di donne e di uomini, di vecchi e di giovani, visi belli e scimmieschi, una gamba, un braccio, una mano. Si incastrano l’un l’altro. Sembra formino una lunga storia. Che incomincia da dove? Da nessuna parte. Non incomincia e non finisce, Il tempo non è una striscia rettilinea formata dal prima e dal dopo.

Qui c’è la storia della vita che continua, ritorna, varia e forse è sempre la stessa. Ma quei tanti personaggi affollati, vicinissimi gli uni agli altri, non hanno rapporti tra loro, in realtà sono isolati e, pure se alcuni si toccano, guardano ognuno in direzioni diverse. Cibelli dice di avere qui immaginato un’allegoria di un pacifico mondo futuro, abitato da esseri tutti uguali tra loro.

Ma che ne sarà di questo singolare parato? «Verrà strappato dalla parete e distrutto», mi dice. E il pacifico mondo futuro sarà mandato al macero.

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