A Bologna nel MAMbo si è inaugurata il 13 Luglio la mostra “David Bowie is” (fino al 13 novembre), partita dal Victoria and Albert Museum di Londra e giunta dopo otto tappe per la prima volta in Italia, sebbene con alcune peculiarità: nell’allestimento, che, al contrario di altri casi, in questo museo si estende su un unico piano, e nello sguardo sentimentale dei visitatori, data la morte a gennaio di Bowie, che aveva voluto e concertato la mostra con il museo londinese. Lui, che mai aveva autorizzato alcuna biografia. Bellissima la grande festa per l’inaugurazione, invitati con addosso – in omaggio al “Duca”- costumi e travestimenti, trucchi ultratrendy e follie di acconciature pop. E in una sezione del MAMbo anche un atelier realizzato dal corso di creatività fashion dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove Rossella Piergallini ha capitanato i suoi studenti per creare costumi “alla” Bowie da far indossare agli ospiti, farli travestire e fotografare, tra miti e icone nello spazio di una notte.
“David Bowie is” nasce così, da un’autobiografica selezione di migliaia di oggetti conservati dallo stesso artista, e prende forma tra appunti, fotografie, riproduzioni di dipinti e testimonianze e un potente schieramento tecnologico per i video e l’audio a tre dimensioni che nel grande spazio dell’ex Forno del pane ti avvolge e immerge nel clima delle performance e dei concerti dell’uomo who fell to earth (e qui, dicono i tecnici di Fifty Nine Productions, il climax audio e video è il più bello tra quelli realizzati per questa esposizione). Ma soprattutto, in questo viaggio oscuro, luminoso e potentemente scenografico, ti abbagliano i vestiti di Bowie, come la mitica tuta a righe di Kansai Yamamoto per il tour Aladdin Sane del 1973 o il cappotto Union Jack realizzato da Alexander McQueen in collaborazione con lo stesso Bowie per la copertina dell’album Earthling o la tuta di Ziggy Stardust disegnata da Freddie Burretti, che nel programma televisivo della BBC ONE Top of the Pops con il brano Starman segna uno spartiacque che ha cambiato “per sempre la storia del rock e della cultura giovanile”, come hanno ribadito più volte alcuni critici musicali.
Vestiti, tra-vestimenti, costumi di scena, teatro e musica, mistione di rock e di una visione pop che di antecedenti ne ha eccome, nella storia del teatro e della fotografia, nei travestimenti di Man Ray o di Duchamp o del funambolo Barbette o di Claude Cahun, come Bowie sapeva bene, e ben sanno artisti come David Byrne o Cindy Sherman, e si capisce che la mostra sia partita dal Victoria and Albert Museum, luogo dove si trova una collezione meravigliosa di tessuti antichi e moderni da far girare la testa a gente come Capucci o Armani o Yamamoto.
Tornando alla genesi della mostra di Bologna, che si apre mentre ancora echeggia il salutare dibattito sulla mostra della Street Art e dell’odierna cultura visiva giovanile, occorre dire due parole su chi l’ha proposta al MAMbo, cioè Fran Tomasi, reduce da una lunga trattativa non andata a buon fine con Palazzo Reale a Milano. Tomasi è un celeberrimo organizzatore di eventi musicali e promotore di artisti (da Lou Reed agli U2 a Byrne) che si è formato proprio qui, “in uno scantinato molto rock” del centro storico bolognese, circa 35 anni fa, come dice lui stesso. E che da qualche tempo è interessato anche alle mostre su celebrità della musica contemporanea, eventi sicuramente più tranquilli dei concerti e che sono amatissimi dal pubblico, si veda non solo l’affluenza di visitatori a questa mostra partita da Londra (e che ha generato anche un documentario con la regia di Hamish Hamilton), ma anche il successo di altre esposizioni, dedicate a, tra gli altri, Amy Winehouse, ai Rolling Stones, ai Velvet Underground, tradotte in itinerari organizzati con differenti meccanismi visivi, ma sempre di grande interesse, perché ciò di cui la storia dell’arte e la critica d’arte troppo spesso non si occupano affiora prepotentemente da questo tipo di mostre: il collegamento indissolubile e ineludibile tra teatro e pittura, moda e disegno, cinema e musica, fumetto e testi delle canzoni.
Divisa in tre corpose sezioni, la mostra bolognese è una moltitudine di flash incalzanti e in qualche modo concatenati in cui i fans di Bowie faranno nuove scoperte o riconosceranno al suono delle canzoni del loro amore il costume o la frase o la fotografia cult, e coloro i quali non ne sanno granché avranno comunque la percezione di un clima, l’illuminazione di un significato attraverso una frase di Bowie su di un manoscritto, il collegamento istantaneo tra un film di Kubrick (Arancia meccanica) e la forma di un paio di stivaletti con le zeppe…E davvero molto interessante sono le interviste, gli scritti, le testimonianze sul modo di lavorare di Bowie, che ti fanno capire quanto incredibile ostinato continuativo lavoro ci sia dietro il successo e quanta pensosa serietà venga volutamente nascosta dall’apparente frivolezza. Così si scopre anche un Bowie semplice e disponibile a smorzare le difficoltà per potere bene lavorare in equipe, un Bowie in camicia a quadretti e sigaretta che ti racconta di come la pittura e il silenzio lo abbiano risanato e ricondotto a quella parte migliore di sé che rischiava di andare perduta.
Eleonora Frattarolo