Oggi hanno inizio le 12 ore di arte, architettura e design che, dal 2011, accompagnano le estati di Marzocca. Per prepararci alla maratona culturale abbiamo intervistato Cristiana Colli, ideatrice del festival Demanio Marittimo KM-278, curato insieme a Pippo Ciorra.
Come è nato questo progetto?
«Demanio nasce dall’esperienza di una rivista, Progetti, ora Mappe, di cui sono alla direzione. Abbiamo cominciato a costruire 25 anni fa una community dedicata alla cultura contemporanea partendo da mostre, workshop e iniziative legate al territorio.
Si è poi posta la questione di avere un punto fermo e questo è diventato Demanio.
All’inizio scommettevamo che sarebbe stato un fuoco di breve durata. Ho sempre pensato che avrei voluto fare una cosa velocissima, intensa, di notte, sull’arenile selvaggio. Non abbiamo mai voluto un festival tradizionale e la modalità delle 12 ore e dei 300 metri è indiscutibile: trovo che ci dia un profilo di unicità e grandi libertà curatoriali.
Abbiamo tenuto duro e siamo arrivati a 13 anni. I progetti culturali sono macchine complesse ed è sul lungo periodo che se ne può vedere l’impatto su immaginari e comunità. Il nostro ha l’aspetto della novità e allude all’attualità, ma ha anche la continuità».
Quali sono i vostri tracciati fondativi?
«Il primo è di certo la dimensione generazionale. Diamo ai giovani reali opportunità. Noi siamo i committenti sia per il progetto architettonico, realizzato in alleanza con le scuole – il Royal College di Londra, lo IUAV, quest’anno l’università di Vienna – sia per l’arte.
Centrale è anche la nostra dimensione adriatica. Cerchiamo un dialogo con l’altra parte dell’Adriatico, che per noi è un mare denso, un mare di progetto. Prima che arrivassimo, la spiaggia stessa era una particella demaniale anonima e ora è diventata luogo di appartenenza, attraverso un processo multidisciplinare.
Possiamo diventare dispositivi di valorizzazione e trasformare un inerte in un bene collettivo competitivo. Il nome stesso lo dice. Tutta la penisola è Demanio Marittimo, da Ostia a Taranto, ma il numero KM-278 è falso, un codice ferroviario: è la realtà aumentata del progetto culturale».
A proposito di continuità: Demanio non ha mai saltato un anno, neanche durante la pandemia. Perché è stato importante?
«Nel 2020 non potevamo non fare Demanio. Avremmo subito un vulnus che potevamo invece girare a nostro vantaggio. Con Francesca Molteni abbiamo raccontato in un film, un Libro della giungla, che cos’era il progetto e, allo stesso tempo, abbiamo messo sulla spiaggia un totem, un segno di sopravvivenza che citava la realtà di schermo in cui eravamo piombati. Era necessario un presidio».
Vi siete dati temi sempre molto sfidanti, da Eurotopia nel 2019 e En plein air nel 2021, il respiro dopo il covid. E quest’anno?
«SPAZIOCORPO. Quando si esce da due apocalissi che le nostre generazioni non hanno mai conosciuto, una pandemia e una guerra, lo spazio-corpo diventa una cosa da capire: se usiamo una parola che non è una somma ma che diventa una parola nuova, bisogna chiedersi che cosa significa.
Sarà un dialogo tra una neuroscienziata, uno studioso di misura, uno storico dell’architettura e un giornalista che si occupa di tute spaziali. Mondi lontani che insistono, tutti, sul corpo e sullo spazio, spostando il confine tra i due e forse addirittura cambiandone la definizione».
Cosa vi affascina delle contaminazioni tra ambiti diversi?
«Demanio è un’antenna che rilascia e riceve, attenta a tutto ciò che accade nella società. I salti quantici che mettiamo sul piatto sono un metodo di interrogazione: non ci diamo risposte ma ci facciamo domande, alcune al limite del rompicapo. L’infrastruttura di relazioni che ci sostiene, rapporti che poi corrispondono a delle linee concettuali, è essenziale per questi confronti».
Fare arte, fare architettura, è una scelta politica?
«Non rinunciamo mai a prendere posizione. Io sono nata in Emilia negli anni Sessanta, dove si pensava che la cultura fosse un bene essenziale e che si dovessero assicurare tutti i servizi per la vita materiale ma anche quelli per la crescita culturale. È quello che io ho fatto tutta la vita.
Nel 2022 ho chiesto a Zhanna Kadyrova uno dei suoi pani di pietra, diventati progetto di charity. Questi arrivano tramite staffette dall’Ucraina. Il nostro tavolo dell’anno scorso, con una tovaglia bianca e questo pane sopra, voleva dire: siamo consapevoli che dall’altra parte di questo mare, abbastanza lontano ma neanche tanto, è in atto una carneficina. Se uno chiama Kadyrova c’è una chiara volontà di indagine. Non esiste ipotesi di neutralità. Noi siamo i nostri gesti e i nostri gesti ci rappresentano.
Anche affrontare le metamorfosi socio-economiche che impattano sui territori per il tramite dei driver culturali è politica. Sislej Xhafa, per esempio, ha lavorato sull’identità territoriale. Alla ferrovia è spesso data la colpa dei progetti di sviluppo mancati. Lui ha rovesciato questa logica. La performance prevedeva che al passare di ogni treno scattasse un applauso verso il riscoperto simbolo di modernità. Dove stava lo scarto politico, il messaggio? L’applauso era stato registrato in un teatro di Pristina. Un riferimento al Kosovo per connettere i nostri mondi e paesaggi. E dimostrare ancora una volta che l’Adriatico è un’autostrada liquida molto ben attraversabile».
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