Nel 2017, William Kentridge fondava a Johannesburg The Centre for Less Good Idea, un incubatore di idee dove la ricerca ha la priorità assoluta, non essendo legata a una deadline o alla consegna di un lavoro. Avere un’idea è un’impresa e non semplice, perché le frenate brusche o le spinte verso l’iperproduttività possono essere all’ordine del giorno. Entrambe tolgono ossigeno al pensiero e, da qui, il bisogno di un paracadute, di uno «spazio sicuro per il fallimento». Lo stesso percorso di Kentridge, del resto, è stato il meno rettilineo per eccellenza: ci sono state prima la facoltà di Scienze Politiche e l’Accademia delle Belle Arti di Johannesburg, poi i corsi di recitazione e, infine, la carriera come regista televisivo. Nel lungo periodo, la sua forza è stata la consapevolezza di imparare anche quando deve esser stato assalito dal dubbio di perder tempo.
Ma è un senso di colpa legittimo? Creare senza l’ansia del produrre quotidiano era anche nei pensieri di Ettore Spalletti (1940-2019) quando affermava, nel documentario di Alessandra Galletta: «Cosa significa fare qualcosa? Spesso arrivo in studio e qui mi siedo fino a sera. Sembra un dolce far niente eppure so che da questi momenti nascono altri momenti».
Nel 2020, durante la costrizione casalinga imposta dal lockdown, tre curatrici dell’Ufficio Progetto Giovani del Comune di Padova hanno dato vita a Dimore, una residenza d’artista online in corso fino al 17 luglio. Vi partecipano gli artisti Daniele Costa (1992, Castelfranco Veneto), Nicolò Masiero Sgrinzatto, (1992, Este), Alessio Mazzaro (1985, Dolo), Eleonora Reffo (1997, Padova), Gianna Rubini (1993, Vicenza) e Annalisa Zegna (1990, Biella). Incuriositi dal particolare taglio di questo progetto, abbiamo rivolto qualche domanda alle curatrici Caterina Benvegnù, Stefania Schiavon ed Elena Squizzato.
Come riassumereste “Dimore” in una frase?
«Il senso della residenza è provare a dare spazi di confronto, ricerca e formazione che non necessariamente devono arrivare a un’opera finita».
Come funziona nella pratica?
«I tutor incontrano gli artisti su Zoom e qui si discutono i quattro temi individuati: identità dell’artista (e di qui le sue necessità, compresa quella del riconoscimento), relazione, immaginario e metamorfosi. I tutor – l’artista Elena Mazzi, il curatore Pietro Gagliano’, i Babilonia Teatri e il filosofo Emanuele Coccia – si alternano su Zoom ogni 15 giorni. Nonostante sono trascorsi mesi in cui tutti siamo stati legati agli schermi e ora stiamo riprendendo le attività, assistiamo a un’interazione digitale che non ci aspettavamo e che vorremmo si mantenesse così fino alla fine. Siamo solo all’inizio, eppure dagli artisti ci arriva a gran voce il messaggio che è davvero un lusso non dover produrre».
Gli artisti non devono produrre, ma percepiscono un fee?
«Si, gli artisti hanno un fee destinato alla ricerca, non alla creazione di un’opera».
Questo approccio svincolato dalla produzione è una cosa a cui pensavate già da tempo oppure è stato il lockdown a suggerirvela?
«Un po’ un mix di queste cose. Il progetto così concepito è partito dal lockdown, quando tutti ci siamo dovuti fermare e abbiamo interrotto i progetti in corso.
I primi due mesi sono stati di riflessione e di ascolto: era già da un po’ che percepivamo questioni relative all’iper produttività, fatto che sembra coinvolgere tutto il sistema dell’arte. La quarantena ci ha dato l’opportunità di riflettere in maniera più decisa su questi temi e la residenza una “cornice” dove inserire l’idea».
Come sono stati selezionati gli artisti? Noto che molti sono veneti…
«Infatti la loro scelta non è arrivata da un bando. Anche se è la modalità con cui lavoriamo di solito, ci siamo rese conto che i suoi tempi tecnici ci avrebbero fatto perdere il “momento”. Quindi abbiamo ritenuto più semplice confrontarci con artisti con cui c’erano già dei discorsi aperti, soprattutto quelli che lavorano sui temi dei rapporti con il territorio e lo scambio sociale. L’ufficio in cui lavoriamo da anni infatti sviluppa politiche per il sostegno e la promozione di giovani artisti del territorio. Così abbiamo pensato che la fiducia professionale già in essere avrebbe facilitato l’avvio di un progetto per noi totalmente sperimentale, complicato dal fatto che le relazioni umane erano tutte forzatamente virtuali».
E per il futuro? Si può trasformare una residenza virtuale in una residenza reale?
«Sono domande aperte con cui ci confrontiamo giorno dopo giorno, anche in base alle riflessioni emerse dal dialogo con gli artisti. Proprio per questo vorremmo prendere alcune decisioni insieme a loro, perché siano il più possibile tarate sulle loro esigenze e su come sono cambiate in questo periodo (se sono cambiate)».
Cosa avete imparato in queste settimane dal confronto con le altre realtà lavorano su diritti e deontologia del lavoro culturale in Italia?
«La voglia degli operatori culturali e degli artisti di lavorare in comunità. Era una cosa che era nell’aria già da tempo, ma adesso ci sembra che si è passati dalla volontà di far gruppo alla sua traduzione nel reale. Non siamo molto ottimiste nel breve periodo, ma crediamo che oggi è importante prendere consapevolezza delle lacune, attivare dei processi anche sperimentali (come ora con Dimore) e così contribuire alla discussione collettiva in atto».
Il sito dimoreresidenzadartista.it è casa, diario di bordo e veicolo per tenere aperta la narrazione del processo di residenza verso l’esterno.
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