Edward Hopper torna in Italia. Dopo l’antologica di spicco ospitata a Milano e Roma nel 2010, stavolta è Bologna a celebrare l’artista americano tra i più popolari del XX secolo. Ma nella mostra di Palazzo Fava (“Edward Hopper”, a cura di Barbara Haskell e Luca Beatrice, fino al 24 luglio), più che una raccolta completa ed esaustiva delle opere, si propone un percorso più vicino al pittore, quasi intimo, proponendo e analizzando alcuni aspetti della sua espressione artistica meno noti e immediati. In alcuni casi anche rivelatori. In questo modo, pur mancando all’appello molte delle opere più note, il risultato è comunque più che positivo, riuscendo a soddisfare, in particolare, chi ha già scoperto l’artista nelle precedenti esposizioni italiane.
La mostra è organizzata come una sorta di viaggio accanto all’artista, scoprendo e assaporando l’evoluzione artistica, dal buio di una tavolozza densa e marcata alla luce sfavillante delle rappresentazioni più liquide, a tratti metafisiche, divenute il suo vero marchio di fabbrica. Il percorso parte con un autoritratto in cui il volto dell’artista ancora giovane contrasta uno sfondo cupo, grazie ai due lucenti occhi azzurri fissi su quelli dello spettatore. Un’opera vagamente impressionista, frutto del periodo parigino dell’artista, anche se della sua esperienza in Francia Hopper ricorda che fu soltanto la letteratura ad affascinarlo. Quasi a voler allontanare dalla sua immagine ogni possibile influenza artistica, sostenendo di essere stato ”influenzato solo da me stesso”. A Parigi, scriveva: «Non ho incontrato nessuno. Andavo di notte nei caffè e mi sedevo». E dipingeva ciò che vedeva, evidentemente, in un realismo che lo ha reso noto e gradito al mondo intero.
Un’esplorazione solitaria, dunque, di cui la mostra di Bologna offre alcuni scorci unici: come la figura di donna ritratta di spalle, in un teatro senza attori tra le poltrone vuote, o il frammento di scala del 48 Rue de Lille, che appare come una salita interrotta. La tecnica non è ancora quella delle opere più celebri, ma è già evidente, in quegli scorci, la propensione fotografica dell’autore, in grado si proporre delle inquadrature mai banali.
Hopper è stato uno straordinario interprete del Novecento e della condizione umana dell’epoca, di una umanità fluida, al di sotto degli eventi della storia. Senza provocazioni o denunce, con un solo scandalo: il Soir bleu, respinto in Francia per quella scomoda rappresentazione di un magnaccia e la prostituta al lavoro, e oggi al centro della mostra di Palazzo Fava. Ma l’opera di Hopper è soprattutto nella ‘sua’ America, proposta nelle stanze successive tra grattacieli, case comuni, barche e porti solitari. Fino ad arrivare alla stanza delle icone, immersa nella folgorante luminosità di Second story sunlight: autentico capolavoro, in cui due donne al sole su un balcone – una seduta e l’altra affacciata – conquistano la scena e i visitatori.
Ma il tocco finale è quello dall’effetto garantito con una felice installazione in cui lo spettatore, seduto su una sedia, può scoprirsi seduto su quello stesso balcone, al sole del quadro: al posto della signora che legge, grazie a un curioso gioco di proiezioni. Superando la soglia che separa l’opera da chi la osserva, riuscendo quasi a intercettare i pensieri dell’artista nel ritrarre la scena.
In mostra ci sono sessanta opere scelte dai curatori (l’americana Haskell e Luca Beatrice), tra le oltre tremila che costituiscono il lascito della moglie Josephine al Whitney Museum di New York, che conserva l’intera eredità dell’artista. Da qui la riuscita del percorso esplorativo che prende per mano il visitatore facendogli vivere l’esperienza Hopper, all’interno degli splendidi panorami americani che rappresentano l’essenza della sua arte.
Alessio Crisantemi